Tre ricordi per quando un altro ci ha data qualche disgusto

Esercizio di perfezione e di cristiane virtù
composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.

 

 

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TRATTATO IV. DELL’UNIONE E CARITÀ FRATERNA

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CAPO XIV. Di tre ricordi e avvertimenti, dei quali abbiamo da valerci quando un altro ci ha data qualche occasione di disgusto

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1. Reprimere ogni sentimento di vendetta
2. Non nutrire interna avversione.
3. Non dimostrar la esternamente
4. Essere più cortesi con chi ci ha offeso.

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1. Da quel che si è detto possiamo raccogliere tre ricordi ed avvertimenti, dei quali ci abbiamo da valere quando il nostro fratello ci abbia offesi, ovvero ci abbia data qualche occasione di disgusto. Il primo è, che abbiamo da tenerci molto lontani dal desiderio di vendicarci. Tutti siamo fratelli e membri di un medesimo corpo, e niun membro percosso da un altro si vendicò mai di quello; né vi è stato mai fanciullo alcuno tanto pazzo, che per essersi morsicata la lingua, si sia cavati con collera i denti, dai quali egli ricevé il male. Sono tutti i membri come d’una stessa famiglia: dappoichè si è fatto un male, non se ne facciano due. Così abbiamo da dire noi altri quando uno ci offende: questi è mio corpo: perdoniamogli; non gli facciamo, né gli desideriamo male: giacché vi è stato un danno, non ve ne siano due in questo corpo della religione. «Non rendendo male per male» (Rom. 12, 17).

Non parlo di vendetta in cosa grave; perché qui nella religione molto alieni sono ed hanno da esser tutti da tal cosa; ma parlo di cose leggiere, quali pare a qualcuno di potere desiderare ti fare senza peccato grave. Dice uno: io non ho desiderato che venisse male al mio fratello; ma certamente avrei voluto dirgli due parole che le avesse sentite e si fosse accorto che fece male in quel particolare. Un altro sente gusto della riprensione e della penitenza che viene data a quello con cui ha qualche amarezza d’animo. Un altro ha non so che di gusto o di compiacenza che ad uno non sia andata bene la tal cosa, e che ne sia rimasto mortificato e umiliato. Questa è vendetta e mala cosa: costui non ha perdonato di tutto cuore e dirà con qualche scrupolo quella parte dell’orazione del Pater Noster: rimetti a noi, Signore, i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori. Certo questo sarebbe qui qualche cosa di più fra noi altri, che non sarebbe nel mondo fra i mondani. «Non dire: farò a lui quello che ha fatto a me» (Prov 24, 29), dice il Savio: non desiderare al tuo fratello l’equivalente a quello che egli ha fatto a te; perché questo è desiderio di vendicarti.

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Come comportarsi quando c’è stato qualche disgusto con un fratello

Esercizio di perfezione e di cristiane virtù
composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.

 

 

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TRATTATO IV. DELL’UNIONE E CARITÀ FRATERNA

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CAPO XIII. Come abbiamo da governarci quando v’è stato qualche incontro o disgusto col nostro fratello

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1. Chi è stato offeso come deve diportarsi?
2. Riconciliarsi subito dopo mancato.
3. Esempi.

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1. Ma perché finalmente siamo uomini, e non stanno sempre tutti tanto ben fermi su le staffe, che non scappi loro qualche volta il piede, e non diano in qualche trascorso, col lasciarsi uscire di bocca qualche parola risentita o dispiacevole, o dando qualche occasione di offesa ai loro fratelli; sarà bene che vediamo come abbiamo da governarci in tali incontri.

Quando avvenga che ci si tratti meno convenientemente, non abbiamo da rispondere del medesimo tono, ma conviene che sia in noi virtù ed umiltà per ben tollerarlo e per saperlo dissimulare. Non ha da esser tanto tenue il fuoco della nostra carità, che poche gocciole d’acqua lo possano spegnere. E perciò dice S. Basilio (S. BASIL. Reg. brev. tract. interr. 242) che S. Paolo la chiamò carità di fratellanza, per dinotare che l’amore non ha da esser leggiero, né d’una qualunque tempra, ma insigne, infervorato e forte. «Si conservi tra di voi la fraterna carità, amandovi scambievolmente con carità fraterna» (Hebr. 13, 1; Rom. 12, 10).

Devesi grandemente desiderare che niuno dia occasione al suo fratello, né con fatti, né con parole, del minimo disgusto; ma è anche da desiderare che non sia uno tanto di vetro, né tanto fanciullo e tenero nella virtù che per ogni minima cosa subito si scomponga, parli alto e perda la pace. Meglio sarebbe che niuno riprendesse Un altro, né s’intromettesse nell’altrui ufficio; ma quando avvenisse che alcuno in questa parte uscisse un poco di riga, non è ragionevole che subito l’altro glielo rinfacci, domandandogli se ha licenza di riprendere; ovvero dicendogli che vi è regola che nessuno s’intrometta nell’ufficio altrui: ché questo non serve se non per far diventare qualche cosa quello che sarebbe niente tacendo e dissimulando. Quando alcuna cosa che è dura batte in un’altra più dura, fa suono e rumore; ma se batte in una molle e morbida, non si sente. Vediamo che una palla d’artiglieria fracassa una torre fabbricata di molto buona materia e di pietre molto forti, e fa grande strepito; ma dando in sacchi di lana, si mortifica con quella morbidezza e perde la sua forza. Così dice qui Salomone: «Una dolce risposta rompe l’ira: una parola cruda accende il furore» (Prov 15, 1). La risposta piacevole e soave rompe e impedisce l’ira; e per contrario la risposta aspra e dispiacevole la eccita ed accende maggiormente; perché questo è un metter legna sul fuoco, contro quello che dice il Savio: «Non metter legna sul fuoco di lui» (Eccli. 8, 4). Non dovete attizzare né metter fuoco colle vostre risposte; ma deve essere in voi tanta piacevolezza e virtù, che quantunque vi sia alle volte detta qualche parola dura ed aspra, questa non faccia rumore, né si senta, né si appalesi, ma si sprofondi in voi e si ammorzi.

S. Doroteo c’insegna una maniera molto umile di rispondere in così fatte occasioni. Dice che quando un altro ci parlerà risentito e ci riprenderà, ed anche quando ci dirà quello che non abbiamo fatto, rispondiamo con tutto ciò umilmente, domandandogli perdono, come se gli avessimo data occasione di offendersi e di risentirsi, ancorché veramente non gliela abbiamo data; e diciamo: perdonami, fratello, e prega Dio per me. E lo cava da uno di quei Padri antichi, il quale consigliava così (S. DOROTH. Doctr. 18). Se in questa maniera staremo gli uni dall’una parte muniti d’una gran cura e vigilanza di non offendere, né dar occasione alcuna di disgusto ai nostri fratelli; e gli altri dall’altra parte molto preparati a sopportare bene qualsivoglia occasione che si presenti, vivremo con gran pace ed unione.

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Delle buone parole con cui dobbiamo esercitare gli uffici di carità

Esercizio di perfezione e di cristiane virtù
composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.


 

 

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TRATTATO IV. DELL’UNIONE E CARITÀ FRATERNA

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CAPO XII. Del buon modo e delle buone parole con cui da noi si hanno da esercitare gli uffici di carità verso dei nostri fratelli.

 

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1. Accompagnare gli uffici di carità con buone parole.
2. Che fare se in questo si manchi?
3. Avvertimenti per chi fa e per chi riceve qualche caritatevole ufficio

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1. S. Basilio, in un sermone che fa esortando alla vita monastica per quelli che si occupano in uffici esteriori in servizio degli altri, dà un avvertimento e un documento molto buono circa il modo che hanno da usare nell’esercitarli. Quando vi toccherà, dice, di far questi uffici, non vi avete da contentare della sola fatica corporale ma avete da procurare di far con buon modo quello che fate, e di usare piacevolezza e soavità nelle vostre parole, acciocché gli altri restino persuasi che lo fate con carità, e così sia loro grato il vostro ministero (S. BASIL. De renunt. saec. etcChe è l’istesso che dice l’Ecclesiastico: «Figlio, nel beneficare non far rimbrotti, né aggiungere al dono l’amarezza delle parole. La rugiada non spegne forse l’afa? Così la parola influisce sul dono. Non vale più una buona parola che il dono?» (Eccli. 18, 15-17).).

E questo è il sale che S. Paolo dice che ha da condire e render saporito e gustoso tutto quello che fate. Valgono più e più si stimano il modo e la grazia con cui servite, e le buone parole colle quali rispondete, che ciò che fate. E per contrario affaticatevi pure e stancatevi quanto volete, che se non lo fate con buon garbo e non usate buone parole e buone risposte, sarà stimato e riputato per niente, e ogni cosa parrà buttata. «Il vostro discorso, dice l’Apostolo, sia sempre con grazia, asperso di sale, in guisa che distinguiate come abbiate a rispondere a ciascuno» (Col. 4, 6). Il vostro parlare sia sempre pieno di grazia e di soavità, come sarebbe il dire: mi piace: molto volentieri. Non perché tu sia occupato, o abbia assai da fare, o non possa fare quel che ti è chiesto, hai da rispondere con istorcimento e con mala grazia al tuo fratello; anzi allora hai da procurare che la risposta sia tanto buona, che l’altro se ne vada contento e soddisfatto, come tu avessi fatto quanto ti chiedeva, vedendo il tuo buon cuore. E il buon termine sarà dicendo: Veramente avrei molto caro di farlo, se potessi; ma adesso non posso: basterà che io lo faccia di poi? o cosa simile. E se la difficoltà nasce dal non averne licenza, dire: io andrò a domandarne licenza. Ove non potrà arrivare l’effetto, suppliscano le buone parole, di maniera che si conosca la tua buona volontà. E questo è ancora quello che dice il Savio: «E una lingua graziosa nell’uomo virtuoso giova assai» (Eccli. 6, 5). Le parole dette con grazia e che mostrano viscere di amore, sempre hanno da abbondare nell’uomo dabbene e virtuoso; perché con questo si conserva grandemente la carità e l’unione di uno coll’altro.

 

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Guardarci dal contendere ostinatamente, dal contraddire

Esercizio di perfezione e di cristiane virtù
composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.

 

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TRATTATO IV. DELL’UNIONE E CARITÀ FRATERNA

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CAPO XI. Che ci abbiamo da guardare dal contendere ostinatamente, dal contraddire, dal riprendere e da altri simili difetti

 

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1. Il contendere è contrario alla carità.
2. Ha colpa maggiore chi comincia a contraddire.
3. Chi è contraddetto fa bene a cedere.
4. Non riprendere altri quando non ci spetta.
5. Esempi di Socrate e di Platone.
6. Altri esempi sacri.

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1. Abbiamo ancora da guardarci dal contendere ostinatamente con un altro, o contraddirgli, perché questa è cosa molto contraria all’unione e carità fraterna. L’Apostolo S. Paolo ce ne avverte, scrivendo al suo discepolo Timoteo: «Fuggi le dispute di vane parole, che non servono a nulla, fuorché a rovina degli uditori». E poco oltre soggiunge: «Non conviene che il servo di Dio contenda, ma che sia benigno con tutti, pronto ad insegnare, paziente» (Tim. 2, 14, 24).

E così i Santi ci raccomandano grandemente questa cosa, e da essi la prese il nostro S. Padre e ce la pose nelle regole. S. Doroteo dice, che più tosto vorrebbe che non si facesse la cosa, anzi che vi avessero da nascere contese tra i fratelli; e soggiunge: «ve lo dico per la millesima volta» (S. DOROTH. Doctr. 4, n. 11). S. Bonaventura dice che è cosa molto indegna dei servi di Dio il contrastare e contendere, come fanno le donnicciuole e le rivendugliole (S. BONAV. in spec. disc. p. 1, c. 20, n. 6). S. Giovanni Climaco aggiunge: Quegli che è ostinato e contenzioso in sostenere la sua opinione, benché sia vera, tenga pure per certo che il demonio lo muove a farlo (S. IO. CLIM. Scala Parad. gr. 4). E la ragione è, perché quello che a ciò suole muovere è il soverchio appetito che gli uomini hanno d’onore umano, e perciò procurano di riuscire colla loro, per parer savi ed intelligenti e restar vincitori; ovvero per non parere da meno degli altri; e così lo spirito maligno della superbia è quello che a ciò li muove.


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Guardarci dalle parole mordenti

Esercizio di perfezione e di cristiane virtù
composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.

TRATTATO IV. DELL’UNIONE E CARITÀ FRATERNA

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CAPO X. Che ci dobbiamo guardare assai dalle parole mordenti che possono offendere o disgustare il nostro fratello

 

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1. Parole offensive e pungenti.
2. Sono gran male, massime in religione

 

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1. Per la prima cosa abbiamo da guardarci assai dal dire parole mordenti. Vi sono alcune parolette le quali sogliono mordere ed offendere un altro; perché, sotto apparenza di tutt’altro, lo tacciano o in riguardo alla condizione, o in riguardo al giudizio, o in riguardo all’ingegno non tanto acuto, o in riguardo a qualche altro difetto naturale, o morale. Queste sono certe parole molto pregiudiziali e molto contrarie alla carità. E alcune volte si sogliono dire come per termine grazioso e per facezia; e allora sono peggiori e più pregiudiziali: e tanto più, quanto con maggior grazia si dicono; perché restano più impresse nella mente di quelli che le odono, i quali si ricordano poi meglio di esse. E il peggio è, che alle volte suole restarsi con gran gusto colui che le dice, parendogli di aver detto qualche bella facezia, e di aver mostrato buon giudizio e bell’ingegno. Ma s’inganna assai; perché in questo mostra più tosto cattivo giudizio e peggior animo, poiché impiega l’intelletto, che Dio gli ha dato per servir lui, in dire motti acuti che offendono e scandalizzano i suoi fratelli e turbano la pace e la carità.

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Le buone parole aiutano a conservare la carità

Esercizio di perfezione e di cristiane virtù
composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.

TRATTATO IV. DELL'UNIONE E CARITÀ FRATERNA

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CAPO IX. Che le buone e piacevoli parole aiutano grandemente a conservare l'unione e la carità; e quelle che non sono tali le sono contrarie

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1. Le buone parole fomento di carità.
2. Quali sono?

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1. Una delle cose che aiuteranno grandemente a conservare e a maggiormente promuovere l'unione e carità fraterna sono le buone e piacevoli, parole. «La parola dolce moltiplica gli amici, e calma i nemici» (Eccli. 6, 5) dice il Savio, e per contrario, «una parola cruda accende il furore» (Prov. 15, 1). Le parole aspre e disgustose eccitano risse e sono cagione di discussioni, perché essendo noi uomini, ci risentiamo di simili parole, e restando uno risentito e disgustato non guarda più il suo fratello con quell'occhio di prima; gli par male delle cose di lui, e forse dice male di esse. Perciò importa grandemente che le nostre parole abbiano sempre un poco di sale, di grazia e di soavità di maniera che cagionino amore e carità, secondo quel detto dell'Ecclesiastico: «Il saggio si rende amabile con le sue parole» (Eccli. 20, 13).

E primieramente bisogna qui avvertire una cosa, come fondamento per tutto quello che si ha da dire, che niuno s'inganni con dire: i miei fratelli sona uomini di molta virtù, e non si scandalizzeranno, né si lasceranno alterare per una paroletta un poco alta, o ruvida, né ci staranno a fare commenti sopra. Non trattiamo adesso di quel che siano, o abbiano da essere i tuoi fratelli, ma di quello che devi esser tu e della maniera nella quale ti hai da portare con loro. Dice molto bene S. Bernardo (S. BERN. Serm. 29 in Cant. n. 5) a questo proposito: Se dirai che l'altro non si offenderà per cosa tanto leggiera, ti rispondo: «Quanto più leggiera è la cosa, tanto più facilmente avresti tu potuto farne di meno». E S. Giovanni Crisostomo (S. IO. CHRYS. Hom. 78 in Matth. n. 1) dice, che anzi questo aggrava più la tua colpa; poiché non ti sapesti vincere in una cosa tanto leggi era.

Non perché il tuo fratello sia buono hai tu da esser tristo. «O è cattivo il tuo occhio, perché io sono buono?» (Matth. 20, 15). Or io ti dico che abbiamo da stimare assai tutti, e non pensare che siano come di vetro, sicché si abbiano a risentire per ogni minimo tocco; ma con tutto ciò nel modo di trattare abbiamo da procedere con essi tanto circospettamente, come se davvero fossero di vetro, e la cosa più fragile del mondo, non dando loro occasione dal canto nostro, onde si possano alterare o disgustare, per fragili ed imperfetti che fossero. E questo primieramente per quello che tocca a noi altri; perciocché l'aver quell'altro molta virtù e perfezione, non toglie né fa che lasci di esser manchevole la nostra. Secondariamente per quel che tocca ai nostri fratelli; perché non tutti né tutte le volte stanno tanto disposti, né tanto preparati, che lascino di séntire i mancamenti che si fanno con essi.

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Gran male l’essere sussurrone anche in piccole cose

Esercizio di perfezione e di cristiane virtù
composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.

TRATTATO IV. DELL’UNIONE E CARITÀ FRATERNA
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CAPO VIII. Che dobbiamo sommamente guardarci dal dire ad uno: il tale ha detta la tal cosa di te, quando sia cosa che lo possa contristare.
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1. Gran male l’essere sussurrone anche in piccole cose.
2. Maggior male mettere dissensione tra Superiore e sudditi.
3. Vane scuse in questa materia.

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1. Non è mia intenzione trattar qui della. mormorazione, perché ne tratterò in altro luogo. Dirò adesso solamente una cosa di molta importanza che fa a questo nostro proposito, e l’avverte S. Bonaventura (S. BONAV. De exter. et inter. hom. Comp.). Come deve uno guardarsi dal mormorare e dal dir male d’un d’altro, così deve sommamente guardarsi dal dire ad alcuno: il tale ha detto la tal cosa di te, quando sia cosa che gli possa recar disgusto; perché questo non serve se non a metter male fra l’uno e l’altro e a seminar discordie tra i fratelli; che è una cosa molto pregiudizi aIe e perniciosa; e come tale, dice il Savio che Dio l’ha grandemente in odio. «Sei sono le cose che il Signore ha in. odio, e la settima è all’anima di lui in esecrazione; e questa è: colui che tra i fratelli semina discordie» (Prov 6, 16 et 19). Come quando noi altri odiamo grandemente una cosa, diciamo che l’odiamo di cuore; così la Scrittura usa il nostro modo di parlare, per dimostrarci quanto dispiacciono a Dio questi tali. E non solamente a Dio, ma agli uomini ancora è questa cosa molto odiosa. «Il detrattore contamina l’anima propria, e dappertutto sarà odiato; e chi converserà con lui sarà malvisto», dice il Savio (Eccli. 21, 31). Non solo colui che fa tal cosa, ma anche colui che praticherà con esso, dice il Savio, sarà odiato.

Questi sono quelli che si chiamano sussurroni: questo è propriamente l’andar sussurrando e seminando discordie e scismi tra gli altri; cosa indegna di uomini dabbene; quanto più di religiosi. «Guardati dalla taccia di sussurrone», dice l’Ecclesiastico (Eccli. 5, 16); non dar occasione di potersi dire di te che sei un sussurrone. Qual cosa può essere più pregiudiziale e più perniciosa in una comunità, che l’esser uno sedizioso e andar mettendo sottosopra i suoi fratelli fra loro? Questa par cosa propria del demonio, perché questo è l’ufficio suo.

E avvertasi qui che per metter in rivolta uno con un altro non è necessario che le cose che si dicono siano gravi. Cose molto piccole e minute, e che alle volte non arrivano a colpe veniali, bastano a fare quest’effetto. Onde bisogna far conto, non solo se la cosa, che si dice o si riferisce, è per se stessa o di sua natura grave, o leggiera; ma se è cosa che possa inquietare, o contristare il tuo fratello, e cagionargli avversione o disunione coll’altro. Non fece uno riflessione nel dire una paroletta, che dimostrava poca stima d’alcuno in materia o di lettere, o d’ingegno, o di virtù, o di talento, o d’altra cosa simile; e tu con maggiore irriflessione vai a riferirla a colui del quale fu detta: già vedi che stomaco gli può fare. Tu pensi di fare una cosa da nulla, e gli trafiggi il cuore. «Le parole del soffione paiono semplici, ma esse penetrano nelle viscere» (Prov 26, 22), dice il Savio.

Vi sono certe cose che alcuni non le sogliono stimar punto, perché non si sa per qual verso le considerino; ovvero perché non le considerano in niun modo; e considerato per quel verso per cui si hanno da considerare, hanno tanta differente faccia, che. vi è molto da dubitare e da temere se arrivino a peccato mortale, per gl’inconvenienti e cattivi effetti che ne seguono; e questa è una di esse.

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Avere e mostrar di avere in grande stima i nostri fratelli

Esercizio di perfezione e di cristiane virtù
composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.

TRATTATO IV. DELL’UNIONE E CARITÀ FRATERNA
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CAPO VII. Di un’altra cosa che ricerca da noi la carità e che ci aiuterà a conservarla: che è avere e mostrar di avere in grande stima i nostri fratelli e parlar sempre bene di loro.

 

 

1. Mostrare la carità con le opere.
2. Perciò grande stima dei nostri fratelli.
3. Parlar bene di tutti.
4. Prevenire tutti nel rispetto e favore.
5. E questo di grande edificazione.

 

1. La carità e l’amore dell’uno verso dell’altro non ha da esser solamente interiore nel cuore, ma si ha da mostrar anche esteriormente colle opere, secondo quello che dice la Scrittura: «Chi vedrà il suo fratello in necessità e gli chiuderà le sue viscere; come la carità di Dio dimora in lui?» (I Io. 3, 17) Quando saremo in cielo, perché ivi non proveremo necessità alcuna, dice S. Agostino (S. AUG. De Div. quaest. 83, q. 71, n. 1), non vi sarà bisogno di queste opere per conservare la carità; ma in questa vita miserabile presto si spegnerà la carità se non vi saranno opere, che la sostentino e conservino. S. Basilio apporta a questo proposito quello che dice l’Apostolo ed Evangelista S. Giovanni nella sua prima Epistola canonica: «Da questo abbiamo conosciuto la carità di Dio, perché egli ha posto la sua vita per noi; e noi pure dobbiamo porre la vita per i fratelli» (I Io. 3 16), se sarà di bisogno. Da questo il Santo, (S. BASIL. Reg. brev. tract. interr. 162) inferisce molto bene che se l’amore che richiede Cristo da noi verso i nostri fratelli si ha da stendere sino a dar la vita per essi; quanto sarà più ragionevole che si stenda ad altre cose che sogliono occorrere, le quali sono meno difficili che il dar per essi la vita.

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Non invidiare, ma cercare il bene del prossimo

Esercizio di perfezione e di cristiane virtù
composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.

TRATTATO IV. DELL’UNIONE E CARITÀ FRATERNA
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CAPO VI. Di due altre cose che ricerca da noi la carità: non invidiare, ma cercare il bene del prossimo.
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1. La carità non è invidiosa.
2. Emula l’amore dei beati in cielo.
3. Non è ambiziosa e non ha amor proprio.
4. La povertà religiosa assai conferisce alla carità.
5. Perciò non aver mai nulla di proprio.

 

1. La carità, dice l’Apostolo S. Paolo, non è invidiosa; anzi colui che davvero ama un altro, desidera tanto il bene di lui e si rallegra tanto di esso, quanto se fosse suo proprio. Il glorioso S. Agostino (S. AUG. De amicit. l. I, c. 24) dichiara questa cosa con l’esempio di Gionata e del grande amore che egli portava a Davide. Dice la sacra Scrittura: «L’anima di Gionata rimase strettamente congiunta con l’anima di Davide, e Gionata lo amò come l’anima sua» (I Reg. 18, 1). Di due anime se ne fece una sola, e di due cuori un solo; perché Gionata amava Davide come la sua propria anima: e ne seguì che, con esser egli figliuolo del re, desiderava più per Davide che per se stesso il regno. «Tu sarai re d’Israele ed io sarò il secondo dopo di te» (Loc. cit. 23, 17). Mostrò ben Gionata con questo di gustare del bene di Davide come se fosse stato suo proprio. 

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2. Apportano i Santi un altro esempio col quale si dichiara anche meglio questa proprietà e questo effetto della carità, ed è quello dei Beati. Colà nel cielo non vi è invidia tra loro per esservene altri maggiori; anzi se ciò potesse accadere, l’uno desidererebbe all’altro gloria maggiore e di potere ad esso far parte della sua; e chi in questa è a lui inferiore, che gli fosse uguale e ancor superiore; perché tanto si rallegra uno della gloria dell’altro, quanto se fosse sua propria. né questo è molto difficile da capirsi; perché se di qua l’amor naturale delle madri fa che gustino tanto del bene dei figliuoli, quanto se fosse loro proprio; quanto maggiormente farà questo effetto l’amore dei Beati, essendo tanto più eccellente e perfetto! Or altrettanto la carità e l’amore ha da operare in noi, che ci rallegriamo del bene altrui come se fosse nostro proprio; perché è effetto proprio della carità.

E per provarci e animarci maggiormente a questo, S. Agostino nota molto bene, che la carità e l’amore fa suo il bene d’altri; non già spogliando alcuno di esso, ma solamente con gustarne e rallegrarsene esso stesso (S. AUG. Hom. 105, n. 2). Né in questo dice cosa da recare gran maraviglia; perché se uno con amore il peccato altrui e con gustare di esso, lo fa suo, essendo che Dio riguarda il cuore; che maraviglia è che con amare altresì uno l’altrui bene e con gustarne lo faccia similmente suo, specialmente essendo Dio più pronto a premiare che a castigare? Ora consideriamo qui noi un poco e ponderiamo da un canto quanto eccellente cosa sia la carità e quanto gran guadagno abbiamo in essa; poiché possiamo con questa far nostre tutte le opere buone dei nostri fratelli, solamente rallegrandoci di esse. Ed anche ci può con maggior sicurezza riuscire questo nelle altrui, più che nelle opere nostre proprie; poiché delle altrui non siamo soliti a concepire vanagloria come delle nostre. E consideriamo pure e ponderiamo dall’altro canto quanto mala cosa è l’invidia e quanto perniciosa; poiché fa che il bene altrui sia male proprio; affinché quindi procuriamo di fuggire questa e d’abbracciare quella.

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Cosa esige da noi la carità e l’unione fraterna

Esercizio di perfezione e di cristiane virtù
composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.

TRATTATO IV. DELL’UNIONE E CARITÀ FRATERNA
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CAPO V. Si comincia a dichiarare in particolare che cosa ricerchi da noi l’unione e carità fraterna, e quello che ci aiuterà a conservarla

 

1. La carità è paziente e benigna.
2. Si mostra tale nel compatire i difetti del prossimo e nell’aiutarlo.
3. La carità non è gonfia e superba.

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1. «La carità è paziente, è benigna: la carità non è astiosa, non è insolente, non si gonfia, non è ambiziosa, non cerca il proprio interesse» (I Cor 13, 4-5). Quello che ricerca l’unione e carità fraterna non è nientemeno che l’esercizio di tutte le virtù. Perché quello che la impedisce e le fa guerra è la superbia, l’invidia, l’ambizione, l’impazienza, l’amor proprio, l’immortificazione ed altre cose simili; onde per conservarci in essa abbiamo bisogno dell’esercizio delle virtù contrarie. Questo è quello ché ci insegna l’Apostolo S. Paolo in queste parole; e così non sarà necessario altro che andarle dichiarando. La carità è paziente; la carità è benigna. Queste due cose, cioè sopportare pazientemente e far bene a tutti, sono molto importanti e necessarie per conservar questa unione e carità di uno con l’altro. Perché come per l’una parte siamo uomini pieni di difetti e d’imperfezioni, abbiamo tutti assai in che esser compatiti; e come per l’altra siamo tanto deboli e tanto bisognosi, abbiamo necessità di chi ci aiuti e ci faccia del bene. E così l’Apostolo S. Paolo dice, che in questa maniera si conserverà la carità e si adempirà questo precetto di Cristo, cioè aiutandoci e sollevandoci l’un l’altro. «Portate gli uni i pesi degli altri, e così adempirete la legge di Cristo» (Gal. 6, 2).

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S. Agostino (S. AUG. De Div. quaest. l. 83, q. 71, n. 1; PLIN. H. N. l. 8, c. 32) sopra queste parole apporta una buona similitudine, che fa al nostro proposito. Scrivono, dice egli, i naturalisti che i cervi, quando vogliono passar a nuoto qualche fiume, o tratto di mare, per andare a cercar pascolo in qualche isola, si dispongono e accomodano in questa maniera, che avendo le teste molto pesanti per cagione di quelle loro corna, l’un dietro l’altro si mettono in una fila, e ciascuno per alleggerimento di fatica porta la testa appoggiata sopra la groppa di quello che gli va innanzi, e così si aiutano l’un l’altro. Di maniera che tutti vanno posatamente e portano la testa poggiata sopra uno dei compagni; solo il primo la porta in aria, sopportando quel travaglio per alleggerir quello degli altri. E acciocché questo ancora non abbia da travagliare soverchiamente, quando si sente stanco, si fa di primo ultimo, e quello che gli andava dietro succede nel suo ufficio per un altro pezzo; é così si vanno rimutando, sino ad arrivare in terra. In questo modo ci abbiamo noi da aiutar e sollevare l’uno l’altro: ciascuno ha da procurare di scaricar l’altro e di levargli il travaglio e la fatica quanto mai gli sia possibile. Questo ricerca la carità; e fuggire uno la fatica e lasciare la soma e il peso all’altro è mancamento di carità. Quanto più farai, tanto più meriterai. Questo è un fare più per te che per gli altri.

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