Guardarci dalle parole mordenti

Esercizio di perfezione e di cristiane virtù
composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.

TRATTATO IV. DELL’UNIONE E CARITÀ FRATERNA

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CAPO X. Che ci dobbiamo guardare assai dalle parole mordenti che possono offendere o disgustare il nostro fratello

 

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1. Parole offensive e pungenti.
2. Sono gran male, massime in religione

 

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1. Per la prima cosa abbiamo da guardarci assai dal dire parole mordenti. Vi sono alcune parolette le quali sogliono mordere ed offendere un altro; perché, sotto apparenza di tutt’altro, lo tacciano o in riguardo alla condizione, o in riguardo al giudizio, o in riguardo all’ingegno non tanto acuto, o in riguardo a qualche altro difetto naturale, o morale. Queste sono certe parole molto pregiudiziali e molto contrarie alla carità. E alcune volte si sogliono dire come per termine grazioso e per facezia; e allora sono peggiori e più pregiudiziali: e tanto più, quanto con maggior grazia si dicono; perché restano più impresse nella mente di quelli che le odono, i quali si ricordano poi meglio di esse. E il peggio è, che alle volte suole restarsi con gran gusto colui che le dice, parendogli di aver detto qualche bella facezia, e di aver mostrato buon giudizio e bell’ingegno. Ma s’inganna assai; perché in questo mostra più tosto cattivo giudizio e peggior animo, poiché impiega l’intelletto, che Dio gli ha dato per servir lui, in dire motti acuti che offendono e scandalizzano i suoi fratelli e turbano la pace e la carità.

2. Alberto Magno dice che, come quando puzza ad uno il fiato, è segno che dentro ha contaminato il fegato, o lo stomaco; così quando uno dice cattive parole, è segno d’infermità che egli ha colà dentro nel cuore (B. ALB. M. Parad. an. seu de virt. c. 2). E che cosa direbbe S. Bernardo (S. BERN. De consid. ad Eug. c. 13) del religioso che è mordente nelle facezie, se qualsivoglia grazia in bocca del religioso è da lui chiamata bestemmia e sacrilegio? Come chiamerebbe egli poi quelle grazie che fanno piaga? Queste cose nulla affatto sanno di religiosità. E così tutto ciò che appartiene a questa materia ha da esser molto lontano dalla bocca del religioso; come è l’usar motti che qualificano questo e quello, e, come suole dirsi, il dar la baia, e il fare o recitare versi satirici, che tocchino il difetto, la trascuraggine o negligenza d’alcuno, dal volgo chiamate pasquinate, e altre cose simili. Cose che né burlando, né davvero conviene che si permettano, come ognuno lo può vedere da se stesso.

Gusteresti, tu che un altro motteggiando ti qualificasse e che tutti ridessero, al vedere che ti calzasse molto bene quel motto? Or quello che non vorresti che si facesse con te, non lo far tu con altri; ché questa è la regola della carità. Ti piacerebbe che, subito detta di te qualche parola simile, vi fosse chi si pregiasse di non lasciarla cadere in terra, e, come si suole dire, ne facesse piatto e vivanda per i circoli e le conversazioni con altri? È cosa chiara che non ti piacerebbe: come dunque vuoi per un altro quello che non vorresti per te? E quello che ti dispiacerebbe e di che ti confonderesti assai se si facesse teco? Se anche il solo nome di dar la baia, o di qualificare motteggiando offende e disdice in bocca di un religioso, quanto più l’effetto? Perciò dovremmo aborrir tanto questa cosa, che né anche i nomi di essa si sentissero in nostra bocca; come dice S. Paolo del vizio della disonestà. «E non si senta neppure nominare tra voi fornicazione, o qualsiasi impurità… come ai santi si conviene». Così ha da essere in questo particolare; come appunto S. Paolo soggiunge: «Né oscenità, né sciocchi discorsi o buffonerie, che sono cose indecenti» (Eph. 5, 3-4). Non si confà con la santità della quale facciamo professione né anche il nominar queste cose. Dice molto bene. S. Bernardo: Se nel giorno del giudizio avremo da rendere conto a Dio delle parole oziose, che sarà di quelle che sono peggiori che le oziose? che sarà di quelle che pungono il mio fratello? che sarà delle perniciose? (S. BERN. De ord. vit. et mor. inst. n. 13).