Delle esortazioni e dei ragionamenti spirituali

Esercizio di perfezione e di cristiane virtù
composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.
TRATTATO PRIMO. Della stima, e desiderio, e affezione, che dobbiamo avere a quel, che concerne il nostro profitto spirituale, e d’alcune cose, che a quest’effetto ci aiuteranno


CAPO XVIII. D’un altro mezzo per far profitto nella virtù, che è quello delle esortazioni e dei ragionamenti spirituali; e come ne caveremo frutto.

1. Esortazioni domestiche.
2. Udirle con desiderio di cavarne frutto.
3. Attendere alle cose, non alle parole.
4. Ricordarsi del fine per cui si fanno.
5. Applicare a sé e non ad altri.
6. Nelle esortazioni si parla in generale, e per preservare, più che per rimediare.
7. Ma ognuno deve applicare a sé in particolare.
8. Tenere a mente ciò che si ode.
9. Danno di chi vi sta distratto.
10. Praticare ciò che si è udito.

 


1. Fra gli altri mezzi che ha la religione, e in modo particolare la Compagnia di Gesù, per aiutare ed animare i suoi a camminar avanti nella virtù e nella perfezione, è molto principale quello dei ragionamenti e delle esortazioni spirituali, che si sogliono fare tra noi. E così diremo qui alcune cose, le quali ci aiuteranno a cavare maggior frutto da esse; e potranno ancora servire a tutti per cavar tutto dalle prediche e dai sermoni che odono.

 

2. La prima cosa che in questo ci aiuterà grandemente è, che non andiamo a queste esortazioni per usanza, o per complimento, ma con vero desiderio di cavarne frutto. Consideriamo con che desiderio ed ansia dovevano stare quei padri dell’eremo quando si radunavano per quelle conferenze spirituali, che facevano tra di loro, e che buona provvisione dovevano riportar da esse, per valersene nelle loro celle. Or con tal desiderio ed ansia dobbiamo andare ancor noi alle nostre domestiche esortazioni e conferenze, e allora faranno in noi frutto. Come quando uno va a mangiare con appetito e con fame, allora pare che gli faccia pro tutto quello che mangia. E S. Giovanni Crisostomo nota che, come l’aver uno buon appetito per mangiare, è segno di sanità e di buona disposizione corporale; così l’aver desiderio e fame d’udire la parola di Dio è segno che si sta bene nell’anima (S. Io. CHRYS. In Gen. hom. 4, n. 1E se non hai fame della parola di Dio, né gusti di essa, è mal segno. Sei in fermo, poiché non hai voglia di mangiare, anzi provi nausea di questo cibo spirituale. E quando bene non vi fosse altro di buono, solamente per sentir trattare e parlare un poco di Dio, dovremmo andare a questi ragionamenti con grande consolazione e gusto: perché naturalmente la persona gusta che le sia parlato e discorso di quello che ama assai; come il padre che gli sia parlato del suo figliuolo. Se dunque tu ami Dio, gusterai di sentirti parlar di Dio. E così Cristo nostro Redentore disse: «Chi è da Dio ascolta la parola di Dio». E per contrario di colui che non gusta di udire la parola di Dio soggiunge subito: «Per questo voi non l’ascoltate perché non siete da Dio» (Io. 8, 7).Relig. hist. n. 4; EUSEB. M. PG. V. 82, col. 1343 et 1346In questa maniera castigò se stesso il servo di Dio per una sola inavvertenza e distrazione che ebbe nell’ascoltare la lettura della parola di Dio, a nostra confusione, che tanto poco caso facciamo di quelle tante e sì frequenti distrazioni che abbiamo.).

 


3. La seconda cosa per cavar frutto da questi ragionamenti è, che bisogna non andarvi con curiosità, attendendo al modo e al1a grazia con cui si ragiona, o se si apportano cose nuove o straordinarie: non bisogna por mente a questo, ma por mente alla sostanza di quel che si dice. Questa è una di quelle cose che noi altri riprendiamo negli uomini del mondo e per la quale oggidì molti cavano poco frutto dalle prediche e dai sermoni. Che diremmo noi d’un infermo, il quale, quando il chirurgo va per fargli qualche operazione, non se la lasciasse fare, ma solamente se ne stesse guardando gl’istrumenti e dicendo: O che bella lancetta! o che bei ferri! o che gentili astucci! Lascia star queste cose; fatti fare l’operazione, ché questo è quello che importa, e queste altre cose non fanno a proposito. Or così sono quelli che non badano alla sostanza di quel che si dice, che è la cosa della quale essi hanno bisogno; ma solamente alle parole, alla loro simmetria ed eleganza e all’artificio della composizione. Vengono questi tali molto bene paragonati al crivello e al setaccio, che buttano via il grano e il fiore della farina, restandosene essi solo o colla paglia, o colla crusca.

 

Nel primo libro di Esdra narra la sacra Scrittura che, leggendo Esdra la legge del Signore al popolo d’Israele, immensa fu la commozione di quel popolo stesso alla vista delle sue prevaricazioni e largo il suo pianto (l Esdr. 10, 1). In questa maniera si hanno da udire le esortazioni, i sermoni e le prediche, con confusione e compunzione, esaminando ciascuno la sua vita sul modello di quello che ode, e considerando quanto differenti noi siamo da quelli, che ci viene detto che dovremmo essere, e quanto lontani ci troviamo dalla perfezione della quale ci viene ragionato.

 


4. La terza cosa, colla quale si conferma maggiormente quel che s’è detto, è che tutti sappiano, che questi ragionamenti non sono fatti per dir cose nuove e straordinarie, ma per ridurci alla memoria le cose comuni e ordinarie che abbiamo per le mani, e per infervorarci in esse. E con questo presupposto abbiamo da andare a sentirle, perché così, posta da parte ogni curiosità, caveremo da essi maggior frutto. A questo fine ordina espressamente il nostro S. Padre che si facciano queste domestiche esortazioni nella Compagnia. Nella terza parte delle Costituzioni: «Vi sia, dice, chi ogni settimana, o almeno ogni quindici giorni, rinnovi la memoria di queste e altre simili cose; acciocché per la fragilità della nostra natura non vadano in dimenticanza, e così cessi l’esecuzione di esse» (Const. p. 3, c. l, § 28; Epit. 187). E nota qui di passaggio il P. Natale, nelle dichiarazioni che scrisse sopra le Costituzioni (P. NAT. in decl. Const. § 1), che sebbene la Costituzione mette quella disgiuntiva, d’ogni otto, o almeno d’ogni quindici giorni, nondimeno l’universale usanza della Compagnia era di non differire tal pratica ai quindici giorni, ma costumarla ogni otto giorni; perché in ciò volle ella attenersi al meglio. E nessuno poté meglio di lui attestar questo, perché egli visitò quasi tutta la Compagnia ed aveva piena notizia del costume universale di essa.

 

Di maniera che questi ragionamenti servono per rinfrescarci la memoria di quello che già sappiamo, acciocché non ci dimentichiamo facilmente delle cose buone; e così è necessario che ci siano ricordate e replicate spesso. E quantunque le tenessimo vive nella memoria, bisogna tanto e tanto, per ravvivare la nostra volontà e il nostro desiderio, che tra di noi si faccia sentire la viva voce di chi ci parli, e ci rammenti e ci replichi il nostro obbligo e la nostra professione ed il fine cui siamo venuti nella religione; essendo vera quella sentenza di S. Agostino: «Vola dinnanzi l’intelletto, tiene dietro tardo o nullo l’affetto». Restò per la colpa ancora più offesa e inferma la nostra volontà per poter seguitar quello che conviene, che non l’intelletto per capirlo. Perciò in alcune materie è necessario che spesso ci siano dette le medesime cose. E così faceva l’Apostolo S. Paolo, come egli dice ai Filippesi: «Del resto, fratelli miei, state allegri nel Signore: non rincresce a me, ed è necessario anzi per voi che io vi scriva le stesse cose» (Philipp. 3, 1). Non mancavano all’Apostolo molte altre cose da dire, e ben poteva dirle nuove e squisite egli, che era stato rapito sino al terzo cielo: ma si conosceva obbligato a dire e replicar loro le medesime cose, che altre volte aveva dette, perché quello era ad essi il più necessario.

A questo ha da mirare chi fa i ragionamenti, i sermoni e le prediche; non ha da dire quello che lo può far comparire più dotto e uomo di maggior erudizione; perché questo sarebbe un predicar se stesso: ma ha a dire quello che può fare maggior frutto negli ascoltanti; e a questo anche hanno da por mente gli uditori. In questa maniera non si attedieranno d’udir le cose ordinarie e correnti e quelle che già sanno; poiché vedono che di questo hanno di bisognò, mentre non le eseguiscono, o almeno non le fanno con la perfezione che dovrebbero.

 


5. La quarta cosa che ci aiuterà molto si è, che quel che si dice in queste domestiche esortazioni, sia preso da ciascheduno come se fosse detto per sé solo, e non come detto per gli altri. Non ci avvezziamo ad udire questi ragionamenti in quella maniera che gli uomini mondani odono i sermoni e le prediche. Un gran predicatore soleva dire: tutti voi altri che mi ascoltate siete trincianti: perché come l’ufficio del trinciante consiste tutto in distribuire le vivande ad altri, ed egli se ne resta senza alcuna cosa; così voi altri quando m’udite vi mettete a dire: oh che buon punto è questo per Pietro! oh come calza ben questo a Giovanni! oh se fosse qui il mio vicino, come sarebbe questo a proposito per lui! E così voi ve ne restate senza nulla. Io voglio che in questo convito della parola di Dio siate commensali, e non trincianti.

 

L’Ecclesiastico dice: «Qualunque buona parola che ascolti l’uomo saggio, la loderà e se l’applicherà: la ascolterà un uomo dato al piacere e gli dispiacerà e se la getterà dietro alle spalle» (Eccli. 21, 18). Siamo dunque del numero dei saggi, e pigli ciascuno per sé quello che si dice, come se a lui solo si dicesse, e con lui solamente si parlasse, e non con altri; perché quella cosa, che pare che quadri bene per un altro, forse quadrerà meglio per te. Ma molte volte noi vediamo la pagliuzza negli occhi del nostro vicino e non vediamo la trave nei nostri (Matth. 7, 3). E tanto più dobbiamo ciò fare, quanto che, sebbene al presente tu non conosca di aver bisogno di quella cosa che si dice, l’hai però da conservare per quando ne avrai di bisogno; il che forse sarà tra non molto: e così sempre l’hai da pigliare, come se a te o per te solo si dicesse.

 


6. La quinta cosa, colla quale questo si dichiara meglio, conviene grandemente che tutti la sappiano, ed è che facciano sempre questa supposizione, che quel difetto, di cui in questi ragionamenti si parla, o che si riprende, non è perché sia allora in casa nostra, ma perché non vi abbia ad essere mai: perché la medicina che previene l’infermità e preserva da essa è molto migliore di quella che la guarisce dopo. E questo è quello che facciamo in queste esortazioni, conforme al consiglio del Savio: «Prima di cadere in languore prendi la medicina» (Eccli. 18, 20). Applichiamo la medicina e il rimedio avanti che venga l’infermità, esortando al bene e biasimando il male, acciocché niuno venga a cadere in quel che già sa esser male e pericoloso. E così sarebbe grande errore il giudicare, che la tal cosa si sia detta per il tale, o per il tal altro, e molto maggiore sarebbe il dirlo. Poiché non s’intende qui di toccare alcuno in particolare, ché questo non sarebbe prudenza, né di frutto, ma più tosto di nocumento. Onde se ciò mai facesse chi fa il ragionamento, sarebbe da biasimarsi e condannarsi, come di una cosa molto mal fatta.

 

 


7. Ma sebbene, per quel che tocca alla persona che predica, o fa; il ragionamento, vi ha da essere questa circospezione e questo riguardo; nondimeno dal canto degli ascoltanti sarà molto bene che ciascuno pigli quel che si dice, come se per se stesso e solo a se stesso si dicesse. Non già che si abbia a persuadere, che la persona che ragiona abbia voluto toccare lui; perché ciò, come abbiamo detto, sarebbe errore; ma perché, mettendosi ciascuno la mano al petto e confrontando le azioni e la vita sua con quel che ode, dica: Veramente tutto questo è detto a me, ed io ne ho gran bisogno: Dio glie l’ha posto in bocca per mia utilità: ché in questa maniera si cava gran frutto. Dice il sacro Vangelo che da quel ragionamento che Cristo nostro Redentore fece alla Samaritana, ella se ne partì gridando e dicendo: «Venite e vedete un uomo, il quale mi ha detto quello che io ho fatto» (Io. 4, 29). Quando il predicatore parla cogli ascoltanti e dice loro quel che passa nelle anime loro, allora è buona la predica e il ragionamento; e questo è quello che piace e che fa frutto in essi.

 

 


8. La sesta cosa è, che abbiamo bisogno di rimanere persuasi, che la parola di Dio è cibo e nutrimento dell’anima: e così sempre abbiamo da procurare di cavar dai ragionamenti, dai sermoni e dalle prediche qualche cosa da conservare nel nostro cuore, acciocché ci dia poi a suo tempo forza e lena per operare. Dice S. Gregorio sopra quelle parole di Cristo: «Quella semenza poi che cade in buona terra dinota coloro i quali di un cuore buono e perfetto ritengono la parola ascoltata e portano frutto mediante la pazienza» (Luc. 8, 15), che siccome il non ritenere uno nello stomaco il cibo corporale che mangia, ma subito rigettalo, è infermità grave e pericolosa; perché non ritenendo il cibo, morirà, per mancargli il nutrimento: così è il non ritenere uno nel suo cuore la parola di Dio che ode, ma quel che gli entra per un’orecchia uscirgli fuori per l’altra (S. GREG. Hom. 15, n. 2).

 

«La tua parola, o Signore, dice il Salmista, io l’ho riposta nel mio cuore, onde non mi avvenga di peccare contro di te» (Ps. 118, 11). Cioè per resistere alle tentazioni e per animarmi alla virtù e alla perfezione. Quante volte avviene che trovandosi una persona in qualche tentazione e vedendosi in pericolo, si ricorda d’una sentenza della sacra Scrittura, o di qualche altra cosa buona, che altre volte udì, e con quello si sforza, si fa animo e sente gran giovamento. Con tre detti della Scrittura vinse Cristo nostro Redentore e mandò in fumo le tre tentazioni, colle quali l’assalì il demonio (Matth. 4, 3 segg.).

 


9. Da quel che si è detto si può vedere quanto siano degni di riprensione coloro che vanno ai ragionamenti, ai sermoni e alle prediche per complimento, o se ne stanno in esse dormendo, o distratti, con pensare ad altre cose, che viene ad esser lo stesso. Dice il sacro Vangelo: «Viene il diavolo e porta via la parola dal loro cuore perché non si salvino col credere» (Luc. 8, 12). Questi diavolI sono gli uccelli che mangiano il grano che si semina, acciocché non nasca. Forse quella parola che perdesti, quando dormisti, o quando ti distraesti, sarebbe stata a proposito per il tuo profitto e per la tua perfezione; ma il demonio, per l’invidia che ha del tuo bene, procura per tutte le vie possibili che non faccia presa nel tuo cuore.

 

 


10. S. Agostino dice che la parola di Dio è come l’amo, «che allora piglia quando è preso». Siccome quando il pesce piglia l’amo, resta egli preso da esso; così quando tu pigli e ricevi bene la parola di Dio, resti preso da essa. E perciò il demonio va procurando tanto d’impedirti il pigliarla, acciocché tu non vi resti attaccato e il tuo cuore non resti preso. Procuriamo dunque d’andare alle esortazioni e alle prediche colla disposizione che dobbiamo, e d’udire in tal maniera la parola di Dio, che s’attacchi al nostro cuore e vi faccia frutto. «Siate facitori della parola, e non uditori solamente, ingannando voi stessi», dice l’Apostolo S. Giacomo. Non vi date a credere di aver soddisfatto a tutto col solo ascoltare, perché, ci dice ancora lo stesso Apostolo, «se uno è uditore e non facitore della parola, egli si rassomiglierà a un uomo che considera il nativo suo volto a uno specchio; considerato che si ha, se ne va e si scorda subito quale si fosse» (Iacob, 1, 22-24). Questi tali non saranno giustificati, ma quelli che ascoltando la divina parola la metteranno in pratica. Poiché, dice S. Paolo, «non quelli che ascoltano la legge sono giusti dinnanzi a Dio, ma quelli che la legge metteranno in pratica saranno giustificati» (Rom. 2, 3).

 

Nel Prato Spirituale, il quale fu composto da Giovanni Evirato, ovvero, secondo l’opinione d’altri, da San Sofronio, Patriarca di Gerusalemme, e fu approvato nel secondo Concilio Niceno, si narra, e l’apporta ancora Teodoreto nella sua Storia Religiosa, che stando un giorno un sant’uomo chiamato Eusebio ed un altro chiamato Amiano sedendo insieme e leggendo il libro dei Vangeli, Amiano leggeva, e l’altro andava spiegando e commentando. Avvenne in questo mentre che, stando certi contadini lavorando i loro terreni in quella campagna, Eusebio, per mirarli, si distrasse e non stette attento alla lezione. Ed allora, sopravvenuto ad Amiano un dubbio su quello che andava leggendo, disse ad Eusebio che glielo dichiarasse; ed Eusebio, come quègli che non era stato attento, gli rispose che tornasse a leggere. Dal che conoscendo Amiano che Eusebio si era distratto dalla lettura che stava udendo, ne lo riprese e gli disse: Non è maraviglia, se per esserti colla vista divertito a guardare quei che lavorano, non hai intese, come si conveniva, le parole evangeliche. Quando Eusebio sentì questa riprensione, se ne vergognò tanto, che comandò ai suoi occhi di non più alzarsi, non che a mirare quella campagna, ma né meno le stelle del cielo. E immantinente avviato si per un sentiero molto stretto, si ritirò in una capanna, dalla quale non mai più uscì in tutto il tempo di sua vita. In questo stretto carcere visse egli quaranta e più anni, sinchè vi morì. Ed acciocché la necessità insieme colla ragione lo costringesse a starsene ivi fermo, si mise un cerchio di ferro ai fianchi ed un altro al collo, e a questi due cerchi legò una catena di ferro, e così questa legata con l’altro suo capo la fermò in terra; acciocché in tal modo per forza avesse a star chino, e non potesse mai più camminare liberamente, né più guardare quella campagna, né meno alzar più gli occhi al cielo (De vitis Patr. l. 10, c. 4; THEOD. ).