L’attrattiva teologica della Messa Tridentina

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Card. Alfons
M. Stickler

L’attrattiva teologica della Messa Tridentina

Testo della Conferenza tenuta a New York (U.S.A.)

Maggio 1995






La Messa Tridentina indica il rito della Messa stabilito dal Papa Pio V su richiesta
del Concilio di Trento e promulgato il 5 dicembre 1570. Questo messale presenta l’antico
rito romano, nel quale sono state soppresse aggiunte e alterazioni diverse. Al momento
della promulgazione, sono stati conservati i riti esistenti da almeno duecento anni.
E’ dunque più corretto chiamare questo messale la liturgia di Papa Pio V.



Fede e liturgia.

Fin dalle origini della
Chiesa la fede e la liturgia sono state intimamente legate. Il Concilio di Trento
stesso ne è una delle prove: dichiarò solennemente che il Sacrificio
della Messa è al centro della liturgia cattolica, contrariamente all’eresia
di Martin Lutero che negava che la Messa fosse un sacrificio.

La storia dello sviluppo
della fede ci insegna che questa dottrina è stata stabilita con autorità
dal Magistero, attraverso l’insegnamento dei Papi e dei Concili. Sappiamo ugualmente
che in tutta la Chiesa, e particolarmente in seno alle Chiese orientali, la fede
era il più importante fattore di sviluppo e di formazione della liturgia,
soprattutto per la Messa.

Noi troviamo nei primi
secoli della Chiesa argomenti convincenti su questo tema. Papa Celestino I scriveva
ai Vescovi della Gallia nel 422: Legem credendi, lex statuit supplicandi
la legge della preghiera stabilisce la legge della fede. Questa idea è stata
ulteriormente ripresa con l’espressione lex orandi, lex credendi (quale il
pregare, tale il credere).

Le Chiese ortodosse hanno
conservato la fede grazie alla liturgia. Il Papa, nella sua ultima lettera scritta
in occasione del Centenario della lettera del Papa Leone XIII sulle tradizioni delle
Chiese orientali, sottolinea l’importanza di questa tesi, perchè ha scritto
che la Chiesa latina ha qualcosa da imparare dalle Chiese orientali, soprattutto
in materia liturgica.



Le dichiarazioni conciliari.

Si trascura non di rado
la differenza tra due tipi di dichiarazioni e decisioni conciliari: ciò che
riguarda la dottrina e ciò che riguarda invece la disciplina.

La maggior parte dei Concili
hanno emesso dichiarazioni e decisioni allo stesso tempo sia dottrinali che disciplinari.
Altri però solo o dottrinali o disciplinari. Molti Concili orientali, dopo
quello di Nicea, trattarono solamente problemi di fede. Il secondo Trullano (a. 691)
fu un Concilio interamente orientale ed un Concilio che emanò solamente decisioni
di ordine disciplinare, perchè queste erano state trascurate nelle Chiede
d’Oriente all’epoca dei Concili precedenti. Questo Concilio mise a fuoco i problemi
di disciplina nelle Chiese orientali, soprattutto in quella di Costantinopoli. Queste
note sono importanti perchè troviamo esplicitamente nel Concilio di Trento
le due disposizioni, capitoli e canoni che trattano prima esclusivamente problemi
di fede e dopo, quasi in tutte le Sessioni, esclusivamente argomenti di ordine disciplinare.
Questa distinzione è importante: tutti i canoni teologici affermano che chiunque
si oppone alle decisioni del Concilio è scomunicato: anathema sit.
Mentre il Concilio non commina mai anatemi per opposizioni contro disposizioni puramente
disciplinari.



L’insegnamento del Concilio di Trento sulla Messa.

Questo ci aiuta nel proseguire
compiutamente nelle nostre riflessioni. Ho già fatto notare il nesso tra fede
e preghiera, la liturgia cioè; ma in modo particolare ciò vale per
il rapporto tra fede e la più alta espressione liturgica, il culto pubblico
cioè della S. Messa.

Una espressione classica
di questo legame l’abbiamo nella trattazione che questo Concilio ha dedicato all’Eucarestia
in tre Sessioni: nella tredicesima dell’ottobre 1551, nella ventesima del luglio
1562, che trattò del Sacramento dell’Eucarestia, e soprattutto nella ventiduesima
del settembre 1562, che stabilì i capitoli ed i canoni dogmatici concernenti
il Santo Sacrificio della Messa. A questo si aggiunge uno specifico decreto su ciò
che deve essere osservato ed evitato nella celebrazione della Messa. E’ una dichiarazione
ufficiale e classica centrale che esprime il pensiero della Chiesa su questa materia.

Il decreto studia prima
di tutto la natura della Messa. Martin Lutero rinnegò apertamente e chiaramente
questa natura, dichiarando che la Messa non è un sacrificio. Occorre notare
che i Riformatori, per non turbare i fedeli semplici, non eliminarono subito tutte
quelle parti della Messa che esprimono la fede vera in contrasto con le loro nuove
dottrine. Essi conservano, per esempio, l’elevazione dell’Ostia tra il Sanctus e
il Benedictus.

Per Lutero e i suoi seguaci,
il culto consisteva principalmente nella predicazione destinata ad istruire e ad
edificare, interrotta da preghiere e da inni. Ricevere la Comunione era solo cosa
secondaria. Ciononostante Lutero sosteneva ancora la Presenza di Cristo nel pane
al momento della Comunione, ma negava fortemente il Sacrificio della Messa. Per lui
l’altare non poteva perciò mai essere il luogo del Sacrificio. Da
questa negazione della vera natura della Messa possiamo meglio comprendere la rottura
che si ebbe nella liturgia protestante, liturgia completamente diversa da quella
della Chiesa Cattolica. Noi comprendiamo ugualmente meglio la ragione per la quale
il Concilio di Trento ha definito la fede cattolica in ciò che concerne la
natura del Sacrificio eucaristico: questo Sacrificio è una vera forza per
la nostra salvezza. Nel Sacrificio di Gesù Cristo, il Sacerdote sostituisce
Cristo stesso. Con l’ordinazione diventa un vero «alter Christus».
Con la Consacrazione il pane è trasformato nel Corpo di Cristo ed il vino
nel Suo Sangue. Questa rinnovazione del Suo Sacrificio è una adorazione di
Dio.

Il Concilio specifica che
questo Sacrificio non è un nuovo Sacrificio, indipendente dal Sacrificio unico
della Croce: dipende piuttosto da questo Sacrificio unico di Cristo, rinnovato in
modo incruento, rendendo tuttavia sostanzialmente presenti il Corpo ed il Sangue
di Cristo, che rimangono però sotto le apparenze di pane e di vino. Non esiste,
di conseguenza, un nuovo valore del Sacrificio: ma Gesù Cristo produce e riattualizza
piuttosto costantemente nella Messa il frutto infinito del Sacrificio cruento della
Croce.

Ne deriva che l’atto del
Sacrificio si compie al momento della Consacrazione. L’Offertorio (con il quale il
pane ed il vino sono preparati in vista della Consacrazione) e la Comunione sono
parti integranti della Messa. Ma la parte essenziale è la Consacrazione con
la quale il sacerdote, nella persona di Cristo, e nello stesso modo, pronuncia le
parole della Consacrazione usate da Cristo.

Da ciò si comprende
che la Messa non è e non può essere una semplice celebrazione di comunione,
o un semplice ricordo o memoriale del Sacrificio della Croce, ma la riattualizzazione
reale incruenta del Sacrificio della Croce.

Perciò la Messa
quale vero rinnovamento del Sacrificio della Croce è sempre essenzialmente
una adorazione di Dio, offerta solo per lui. Questa adorazione dà immediatamente
luogo ad altri atti collegati, quali sono: la lode, l’azione di grazie per tutte
le grazie ricevute, il dolore dei nostri peccati, la domanda di grazie indispensabili.
La Messa può certamente essere offerta per una o per tutte queste intenzioni
diverse. I capitoli ed i canoni della ventiduesima sessione del Concilio di Trento
hanno disposto e promulgato insieme queste nozioni dottrinali.



Gli anatemi del Concilio di Trento.

Questa natura fondamentalmente
teologica della Messa ha molteplici conseguenze. La prima riguarda il Canone della
Messa.

La liturgia romana ha sempre
previsto un solo Canone introdotto ed usato dalla Chiesa molti secoli fa. Il Concilio
di Trento afferma espressamente, al capitolo IV, che questo Canone non può
contenere alcun errore; in realtà contiene ciò che è pieno di
santità e di pietà, e ciò che eleva le anime a Dio. La composizione
di questo Canone è basata sulle parole stesse di Gesù, sulla tradizione
degli Apostoli e sulle prescrizioni dei santi Papi. Il canone 6 al capitolo IV commina
la scomunica a coloro che sostengono che il Canone della Messa contiene errori e
deve, di conseguenza, essere abolito.

Al capitolo V, il Concilio
afferma che la natura umana necessita di segni esteriori che servano ad elevare lo
spirito verso le cose divine. Per questa ragione la Chiesa ha introdotto alcuni riti
e segni: la preghiera silenziosa o vocale, le benedizioni, i ceri, l’incenso, i paramenti
sacri ecc. La maggior parte di questi segni traggono la loro origine dai precetti
o tradizioni apostoliche.

Grazie a questi segni visibili
di fede e di pietà viene sottolineata la natura sublime del Sacrificio. Tali
segni fortificano ed incoraggiano i fedeli nella loro meditazione sugli elementi
divini contenuti nel Sacrificio della Messa. Per salvaguardare questa dottrina, il
canone 7 commina la scomunica a coloro che ritengono che questi segni conducano all’empietà
e non alla pietà. Questo è un esempio per ciò che ho detto sopra:
questo genere di dichiarazione, ed il canone che la sanziona, comportano un senso
eminentemente teologico e non semplicemente disciplinare.

Al capitolo VI il Concilio
mette in evidenza il desiderio della Chiesa di vedere che tutti i fedeli presenti
alla Messa ricevano la Santa Comunione; dichiara però che nel caso in cui
il sacerdote che celebra la Messa sia il solo a comunicarsi, questa Messa non deve
esser chiamata privata, nè essere criticata o vietata per questo. Perchè
in tal caso i fedeli ricevono la Comunione spiritualmente e, d’altronde, tutti i
sacrifici offerti dal sacerdote in veste di ministro ufficiale della Chiesa, sono
offerti a nome di tutti i membri del Corpo Mistico di Cristo. Il canone 8 commina
dunque della scomunica a tutti coloro che dicono che tali Messe sono illecite e che
esse devono di conseguenza essere vietate. Ciò costituisce una nuova dichiarazione
di ordine teologico.

Il capitolo VIII è
dedicato alla lingua particolare da usare nel culto della Messa. Sappiamo che tutte
le religioni si servono di una lingua sacra per il loro culto. Durante i primi tre
secoli la Chiesa Cattolica Romana si servì del Greco che era la lingua comune
nel mondo latino. Dal quarto secolo il Latino divenne la lingua comune in tutto l’Impero
Romano e lo restò per secoli nella Chiesa Cattolica Romana quale unica lingua
di culto. E naturalmente il Latino divenne anche la lingua utilizzata nel rito Romano
particolarmente nel suo centro, la Messa. Questa situazione si mantenne anche quando
il Latino fu rimpiazzato, in quanto lingua vivente, dalle lingue viventi Romanze.



Il Concilio di Trento: Il Latino e il silenzio

Domandiamoci ora perchè
non c’è più stato un nuovo cambiamento. La risposta è che la
Divina Provvidenza interviene anche per cose di second’ordine. Per esempio: la Palestina
con il centro di Gerusalemme è il luogo dove Gesù Cristo ha operato
la Redenzione. Ma Roma è divenuta il centro della Chiesa Cattolica. Pietro
non è nato a Roma ma è venuto a Roma perchè era il centro dell’Impero
Romano che voleva dire allora del mondo. Ciò ha permesso di propagare la fede
in tutto il mondo allora conosciuto da un centro riconosciuto con tutte le possibilità
inerenti allora. Fu un elemento umano e storico nel quale certamente intervenne la
Divina Provvidenza.

Lo stesso fenomeno linguistico
si trova anche in altre religioni. Per i Musulmani la vecchia lingua Araba è
morta e pertanto resta la lingua liturgica, la lingua del culto religioso. Per gli
Indù è il Sanscrito. A causa di questo necessario legame con il soprannaturale
tutti i culti richiedono del tutto naturalmente una lingua propria religiosa che
non può essere una lingua «volgare».

I padri del Concilio sapevano
perfettamente che la maggior parte dei fedeli che allora assistevano alla Messa non
sapevano il Latino e neppure potevano leggere la traduzione essendo generalmente
analfabeti ed illetterati. Ma sapevano anche che la Messa contiene molte parti di
istruzioni per i fedeli.

Tuttavia essi non approvarono
la opinione dei Protestanti che fosse indispensabile celebrare la Messa solo in vernacolo.
Al fine di favorire l’istruzione dei fedeli, il Concilio ordinò di mantenere
ovunque l’antica tradizione approvata dalla Santa Chiesa Romana, la quale è
madre e maestra di tutte le chiese, di aver cura cioè di spiegare alle anime
il mistero centrale della Messa.

Il canone 9 commina perciò
la scomunica a coloro che affermano che la lingua della Messa deve essere solo il
vernacolo. E’ il caso di evidenziare che, sia nel capitolo che nel canone, il Concilio
di Trento ha rifiutato l’esclusività della lingua «volgare»
nei riti sacri ma non un uso limitato ed eccezionale. Anche in questo caso dobbiamo
di nuovo considerare il fatto che il carattere di tutti questi regolamenti conciliari
non è unicamente disciplinare, ma è fondato su considerazioni dottrinali
e teologiche che coinvolgono la stessa fede.

Una delle ragioni di tutto
ciò è anzitutto la venerazione dovuta al mistero della Messa. Il decreto
che segue questo capitolo e questo canone e che riguarda ciò che deve essere
osservato ed evitato durante la celebrazione della Messa, dichiara che «l’assenza
di venerazione non può essere considerata come separata dall’empietà».

L’irriverenza sottende sempre l’empietà. In più, il Concilio ha voluto
salvaguardare le idee espresse nella Messa; e la precisione del Latino preserva il
contenuto da una interpretazione equivoca e da eventuali errori dovuti ad una imprecisione
linguistica.

Per queste ragioni la Chiesa
ha sempre difeso la lingua sacra e, più vicino a noi, il Papa Pio XI ha espressamente
dichiarato che la lingua impiegata doveva essere «non vulgaris».
Per queste stesse ragioni il canone 9 comminò la scomunica a coloro che affermano
che il rito della Chiesa Romana, nel quale una parte del Canone e le parole della
Consacrazione sono pronunciate silenziosamente, deve essere condannato. Anche il
silenzio ha un fondamento teologico.

Per concludere, noi troviamo
nel primo canone del decreto di riforma, alla ventiduesima sessione del Concilio,
altre regolamentazioni che hanno un aspetto disciplinare, ma che completano ugualmente
la parte dottrinale: niente è più adatto a portare i fedeli ad una
comprensione approfondita del mistero che la vita e l’esempio dei ministri di culto.
Questi ultimi devono modellare la loro vita ed il loro comportamento in vista di
questo fine; ciò deve sgorgare dal loro vestito, da tutto il loro contegno
e dai loro discorsi. In tutto ciò essi devono essere degni, modesti e religiosi.
Essi sono ugualmente tenuti ad evitare anche i più piccoli errori, poichè,
nel loro caso, un piccolo errore diviene grave. Questa è la ragione per cui
i superiori devono esigere dai ministri sacri che vivano secondo l’uso propriamente
clericale trasmesso dall’insieme della tradizione.



La Messa di San Pio V e la Messa di Paolo VI.

Adesso ci è più
facile valutare e comprendere il fondamento teologico delle discussioni e delle regole
del Concilio di Trento in ciò che concerne la Messa, considerata come l’apice
della liturgia sacra. Possiamo ora meglio comprendere il fascino teologico della
Messa Tridentina quale risposta alla seria sfida del Protestantesimo, non soltanto
per quell’epoca storica, ma anche come modello per la Chiesa e la riforma liturgica
del Vaticano II.

In primo luogo dobbiamo
determinare il vero senso di questa riforma. Proprio per la Messa Tridentina ci siamo
domandati che cosa ha fatto il Papa Pio V per rispondere ai desideri dei padri del
Concilio di Trento per poter comprendere quale è la retta denominazione della
riforma uscita, come si dice, dal Concilio Vaticano II.

Dobbiamo dire che è
«la Messa della commissione liturgica postconciliare». E un semplice
sguardo alla costituzione del Vaticano II sulla liturgia ci dice che la volontà
del Concilio e la volontà della commissione che ha fatto la riforma spesso
non solo non coincidono, ma si oppongono in maniera evidente.

Passiamo brevemente in
rassegna le principali differenze tra le due riforme, in modo da stabilire il rispettivo
valore attrattivo – teologico.

In primo luogo la Messa
di Pio V, nel contesto della eresia Protestante, pose l’accento sulla verità
centrale secondo la quale la Messa è un Sacrificio. Ciò risulta dalle
discussioni teologiche e dalle prescrizioni specifiche del Concilio di Trento. La
Messa di Paolo VI (così chiamata perchè la commissione liturgica incaricata
della riforma dopo il Vaticano II ha lavorato sotto la responsabilità definitiva
del Papa) mette più che altro in luce la parte integrante della Messa quale
è la Comunione, con il risultato che il Sacrificio viene trasformato in ciò
che si può chiamare un pasto: «la Cena del Signore». Lo spazio
importante accordato poi alle letture e alla predicazione nella nuova Messa, e la
stessa possibilità data al sacerdote di aggiungere discorsi e spiegazioni
personali, è una riflessione in più su ciò che è legittimo
chiamare un adattamento all’idea Protestante del culto.

Il filosofo francese Jean
Guitton dice che il Papa Paolo VI gli confidò che era nelle sue intenzioni
di assimilare il più possibile la nuova liturgia cattolica al culto Protestante.
Evidentemente si deve verificare il reale senso di questa affermazione, perchè
tutto l’insegnamento di Paolo VI dette prova della sua assoluta ortodossia, come,
in particolare, la sua eccellente enciclica, Mysterium Fidei, pubblicata prima
della chiusura del Concilio così come il «Credo del Popolo di Dio».
Allora ci si deve domandare come spiegare questa dichiarazione contraria?

Continuando questo nostro
discorso possiamo cercare di comprendere la nuova posizione dell’altare e del sacerdote.
Secondo gli studi ben fondati di Mons. Klaus Gamber sulla posizione dell’altare nelle
antiche basiliche romane e altrove, il criterio dell’antica posizione non era che
l’altare dovesse essere rivolto verso l’assemblea dei fedeli, ma che piuttosto dovesse
essere girato verso l’Oriente, simbolo del sole nascente che rappresenta Cristo,
colui che si doveva adorare. La posizione tutta nuova dell’altare, così come
la posizione del sacerdote verso il popolo, vietate una volta, divengono oggi segno
di una Messa concepita come riunione della

comunità. In secondo
luogo nell’antica liturgia il Canone è il centro della Messa, intesa come
un Sacrificio. Secondo la testimonianza del Concilio di Trento il Canone stesso risale
alla tradizione degli apostoli ed è stato sostanzialmente già completo
ai tempi di Gregorio Magno, ca. l’anno 600. La Chiesa Romana non aveva mai avuto
altri Canoni. Il passo stesso del «mysterium fidei» nella formula
della Consacrazione è un’antica tradizione che Innocenzo III testimonia esplicitamente
in una risposta data all’Arcivescovo di Lione. Anche San Tommaso d’Aquino dedica
un articolo della sua Somma Teologica alla stessa giustificazione del «mysterium
fidei»
. Ed il Concilio di Firenze confermò esplicitamente il «mysterium
fidei»
nella formula della Consacrazione.

Ci si può dunque
giustamente domandare con quale ragione e diritto ai nostri giorni il «mysterium
fidei»
è stato eliminato dalle parole della Consacrazione che è
il centro più sacro di tutta la Messa? Parimenti è stato accordato
il permesso di usare altri Canoni. Il secondo, che non menziona il carattere sacrificale
della Messa, ha senza dubbio il merito di essere il più corto, ma ha, di fatto,
soppiantato del tutto l’antico Canone Romano. E così abbiamo perduto il profondo
senso teologico ed insieme la certezza garantita dalla tradizione e da un Concilio
Ecumenico Dogmatico.

Il mistero del Sacrificio
divino è attualizzato in tutti i Riti, anche se in modi differenti. Nel caso
del Rito Latino esso fu sottolineato dal Concilio di Trento con la lettura silenziosa
del Canone. Cosa che è stata abbandonata nella nuova Messa con la dizione
del Canone ad alta voce.

In terzo luogo la riforma
che seguì il Vaticano II ha distrutto o cambiato la ricchezza del simbolismo
liturgico mentre questi simboli con il loro profondo senso sono stati conservati
gelosamente in tutti i Riti orientali. Il Concilio di Trento aveva sottolineato l’importanza
di questo simbolismo. Questo fatto è stato, del resto, deplorato pure da un
celebre psicanalista ateo che ha definito il Concilio Vaticano II il «Concilio
dei contabili»!



La Messa in volgare.

La riforma liturgica ha
totalmente distrutto un principio teologico che, pure, era stato affermato sia dal
Concilio di Trento come dallo stesso Vaticano II dopo una lunga e approfondita discussione,
alla quale io assistevo per cui posso affermare che la chiara risoluzione maturata
in una tale discussione è stata chiaramente e sostanzialmente riaffermata
nel testo votato dall’Assemblea e che fa parte della Costituzione liturgica. Questo
principio è che la lingua Latina deve essere conservata nel rito Latino. Esattamente
come lo permetteva il Concilio di Trento, la lingua vernacola è stato ammessa
limitatamente dai padri conciliari anche del Vaticano II solo come una eccezione.

Nella riforma di Paolo
VI è diventata una esclusività che ha inoltre praticamente soppiantato
la lingua latina anche come eccezione. Le ragioni teologiche del mantenimento del
Latino per la Messa, stabilite dai due Concili, appaiono ben giustificate alla luce
delle conseguenze dell’uso esclusivo del vernacolo introdotto dalla riforma liturgica
postconciliare. La Messa stessa è stata spesso volgarizzata dall’uso del vernacolo
e anche gravi errori dottrinali o malintesi sono il risultato della traduzione del
testo originale latino.

In più, il vernacolo
non fu permesso prima non solo nemmeno a persone che erano illetterate, ma anche
a quelle che erano del tutto estranee le une alle altre. Ai nostri giorni le differenti
lingue e anche dialetti dei Cattolici di tribù o nazioni diverse possono essere
utilizzati per il culto, mentre viviamo in un mondo che diviene di giorno in giorno
sempre più piccolo: questa Babele nel culto pubblico ha per risultato la perdita
dell’unità esterna in seno alla Chiesa Cattolica diffusa nel mondo intero
che una volta era unita in una voce comune; proprio ora che si mette l’accento sulla
vita comunitaria anche nel culto, si è abbandonata questa voce comune.

In più: questa situazione
è divenuta molte volte la causa di disunione interna in seno alla Messa, la
quale doveva essere il centro ed anche l’espressione della concordia interna ed esterna
dei Cattolici di tutto il mondo. Abbiamo molti esempi di questo fatto di disunione
dovuta all’uso della lingua volgare.

Aggiungiamo un’altra considerazione
di ordine assai pratico: una volta qualunque sacerdote poteva dire la Messa in tutto
il mondo per tutte le comunità di qualunque lingua vernacola e tutti i sacerdoti
comprendevano il Latino. Sfortunatamente ai nostri giorni nessun sacerdote può
dire la Messa dappertutto. Dobbiamo ammettere che in qualche decennio, dopo la riforma
della lingua liturgica, noi abbiamo perduto questa possibilità di poter pregare
e cantare insieme, anche nelle grandi assemblee comunitarie internazionali come nei
Congressi Eucaristici e perfino negli incontri con il Papa che è il centro
e l’espressione di questa nostra unità interna ed esterna.

Finalmente dobbiamo considerare
alla luce del Concilio di Trento con preoccupazione il comportamento di non pochi
ministri sacri: questo Concilio ha sottolineato lo stretto rapporto che esiste tra
il loro comportamento ed il loro sacro ministero. Il corretto comportamento clericale
nel vestito, contegno ed atteggiamento incoraggia la gente ad accettare ciò
che dicono ed insegnano i loro pastori. Sfortunatamente, il comportamento meno esemplare
di numerosi sacerdoti fa oggi spesso dimenticare la differenza ontologica tra il
ministro sacro ed il laico ed accentua una deplorevole disuguaglianza tra il sacro
ministro e la sua natura di «alter Christus». Riassumendo le nostre
riflessioni possiamo dire che l’attrattiva teologica della Messa Tridentina fa riscontro
alle deficienze teologiche della Messa uscita dal Vaticano II. Per questa ragione
i «Christi Fideles della tradizione teologica devono continuare a manifestare
in uno spirito di obbedienza ai Superiori legittimi il loro giusto desiderio e la
loro preferenza pastorale per la Messa Tridentina.



Alfons Maria
Card. Stickler