La forma antica del Rito romano

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“La
ricchezza tradizionale intera del culto cristiano è, per Benedetto, il canone
cui attingere…”


Testo completo delle risposte raccolte da Roberto Beretta, giornalista di “Avvenire”
per l’edizione on line di “Toscana Oggi” e per il mensile “Il Timone”


di Pietro De Marco



D. – Perché, da un lato, restaurare una liturgia mai abrogata
e, perché, dall’altro, se era il latino l’obiettivo, non promuovere la forma
latina del Messale di Paolo VI invece di tornare a quello di Pio V? In più,
tornare a Pio V non è forse regredire agli abusi del passato per
rimediare a quelli del presente?


 

R. – Vi è un aspetto tecnico giuridico che non è mio mestiere trattare,
anche se mi cimenterei volentieri. Certo è che le dichiarazioni di non abrogazione
della forma antica del Rito romano si sono moltiplicate di recente, ma
lo stesso cardinale Jorge Medina Estévez, cui dobbiamo affermazioni nette
in proposito, sembrò adombrare in passato, firmando nel 1999 come prefetto
della congregazione per il culto divino le risposte ai quesiti posti da Gaetano Bonicelli,
allora arcivescovo di Siena, una tacita abrogazione da parte di Paolo VI.

 

L’argomento e silentio relativamente agli atti di Paolo VI, che oggi
pesa correttamente a favore della non abrogazione tacita, è stato a lungo
usato in direzione opposta. Inutile ripetere quello che troppe voci hanno attestato
recentemente: gli ordinari aministravano la concessione della celebrazione dell’anticus
ordo missae con molta parsimonia, forse apprensione, talora ostilità, in sostanza
troppo ad libitum, nonostante il cosiddetto indulto della Quattuor abhinc
annos
risalisse al 1984 e il più deciso motu proprio Ecclesia
Dei – ancora un atto del vescovo di Roma in prima persona! – al 1988.

 

La decisione di Benedetto XVI di sottrarre la celebrazione della messa tridentino-gregoriana
alle contingenze locali è un ammirevole atto d’imperio, quale attiene alla
missione petrina. La Summorun pontificum risolve i tentennamenti
e le resistenze perenni nelle Chiese locali, e tra gli specialisti, alla luce di
una convinzione maturata in molte sedi, anche entro la congregazione per il culto
divino, da oltre un decennio.

 

In effetti una svolta è in atto già nel 1996, con l’avvio della preparazione
della Editio typica tertia del Messale di Paolo VI, ed è confermata dalla
sua promulgazione (2000) ed edizione (2002). Nella Institutio del Messale non solo
si rafforzava il richiamo ad un massimo di rigore (a fondamento teologico) negli
adattamenti di gesti e parole a situazioni, non solo si aveva la fermezza
di dire fine alla stagione delle sperimentazioni, ma fu ulteriormente
marcata l’essenza sacrificale del rito e l’infungibilità del sacerdote. La
Institutio generalis del 2002 (ma anticipata nel luglio 2000) e alcuni attenti, non
minimizzanti, commentari delle sue novità vanno assolutamente letti; essa
si trovò naturalmente tra i due fuochi della minimizzazione di parte riformatrice
e della insoddisfazione di parte tradizionalista non scismatica.

 

D. – Perché, a maggior ragione, questa correzione di rotta non basta agli
occhi del pontefice e, con ogni probabilità, di altri?


 

R. – Non basta perché non si tratta solo di venire incontro caritatevolmente
(nonché secondo verità) ad istanze di una frammentata minoranza. Si
deve pur riconoscere (tardivamente? questo non vale certo per Joseph Ratzinger) che
alcune delle severe riserve che vennero dall’interno della Chiesa agli indirizzi
della riforma liturgica degli anni Sessanta, riserve coltivate poi per decenni da
ambienti diversi e certamente non scismatici, hanno conservato e visto confermate
nel tempo le loro buone ragioni.

 

Non sfuggì e non sfugge a critici più severi che, nelle mani dei liturgisti
e biblisti (pochi i teologi) del Consilium ad exequendam constitutionem de sacra
liturgia
, la messa della tradizione secolare tridentino-gregoriana si stava riducendo
alla figura-evento della Cena, della sua commemorazione più che riattualizzazione,
sotto la presidenza del presbitero. Enorme il rischio, col tacere l’evento culmine
della transustanziazione e sottovalutare la natura sacrificale e propiziatoria del
rito, di smarrire la peculiare realtà della messa. Si sostenne anche, e sottilmente
a mio parere, che la nozione di presenza veniva equivocata, nei testi prodotti dal
Consilium, col porre sullo stesso piano la presenza di Cristo nella Parola e la presenza
nel sacrificio eucaristico. Le riserve furono e restano eccessive, ed eccepibili
nel merito; perché furono però preveggenti quanto alla recezione delle
riforme nelle Chiese locali? Una domanda importante; dovremo raccogliere
il coraggio e l’intelligenza per rispondervi.

 

Resta, a mio parere, colpevole la sottovalutazione, spesso sprezzante, delle critiche
conservatrici da parte dei liturgisti impegnati a più titoli nella riforma.
Eppure ebbero dinanzi agli occhi le derive teologiche e pastorali puntualmente e
precocemente (già negli anni Sessanta) realizzate. È vero che negli
anni Sessanta-Settanta, non solo nella Chiesa, gli occhi di moltissimi (e non mi
tiro fuori iuventute mea) erano come accecati.

 

Si capisce che la disciplina del nuovo rito, anche nella revisione del 2000-2002,
non solo non basti ai tradizionalisti (non sarebbe decisivo, considerata
la loro rigidità) ma, ciò che conta, non basti a Roma.
Essa non è, ovvero ha mostrato di non essere, freno in sé sufficiente
alle concezioni banalizzanti, attivistico-comunitarie, della materia liturgica che
sono subentrate alle sfide manipolatorie di qualche anno fa. Né basta il latino
della typica tertia: non è il latino il problema, ne è solo un corollario.

 

La nuova legittimazione erga omnes della intatta validità (ma legittimità
e legittimazione non vanno di pari passo) del Missale romanum tridentino o
di Pio V (nelle revisioni posteriori, fino a quella pio-giovannea del 1962), e la
sanzione positiva della sua scelta alternativa libera, decise da Benedetto XVI, vanno
oltre le pratiche di pacificazione, quanto a intentio magisteriale. Esse dichiarano
che la ritualità cattolica e il dogma eucaristico, come intesi prima Concilio
Vaticano II, restano vitale orizzonte della nostra vita liturgica. Inoltre, nel permettere
che due diverse sensibilità si affianchino liberamente e con pari dignità,
Benedetto riconduce la forma cattolica alla sua essenziale natura di complexio
(espressione che preferisco di gran lunga a diversità o pluralismo:
complexio è diversità necessariamente articolata in unità
secondo il senso).

 

Sottolineo ancora che la sensibilità e la determinazione del pontefice non
sono, ovviamente, isolate. Le opinioni ai vertici della congregazione per il culto
divino e la disciplina dei sacramenti sembrano decisamente favorevoli a restituire
alla tradizione liturgica preconciliare e al lavoro del Concilio come tale il suo
valore intrinseco e il suo peso regolativo. Anche a difesa delle diverse forme di
attuazione della riforma liturgica, poiché dall’arbitrio nulla viene risparmiato,
anzitutto ciò che si presenta come nuovo.

 

D. – Ma valeva comunque la pena di emettere il motu proprio, di fronte ai rischi
di conflittualità e ai rischi di recupero di antiche carenze e abusi
legati alla liturgia tridentina?


 

R. – La ricchezza tradizionale intera del culto cristiano è, per Benedetto,
il canone cui attingere nuovamente. È criterio strettamente connesso all’essenza
stessa dell’analogia fidei. L’obiettivo della riconciliazione interna nel seno
della Chiesa diviene parte di un più ampio intervento per l’intera comunità
credente, indipendentemente da storiche tensioni con le minoranze tradizionaliste.

 

Conosciamo la reazione, spesso innervosita, degli episcopati. La moderatio sacrae
liturgiae esercitata dal vescovo dovrà, comunque, essere intesa dagli ordinari
in conformità alla intentio del pontefice, con più attento senso, rispetto
al passato (almeno per alcuni casi), delle necessità della Chiesa e della
struttura della Tradizione.

 

Questo quadro può essere generatore di conflittualità intraecclesiale?
Avrei voglia di replicare che l’argomento della conflittualità (come rischio,
anche spirituale o morale) è spesso usato per proteggere i gruppi, o gli stati
di cose, egemoni o prevalenti.

 

La libera opzione del Missale romanum del 1962, che potremmo chiamare tridentino-giovanneo,
agirà come paradigma stabilizzatore delle fluttuanti liturgie in lingua corrente.
Il cardinale Karl Lehmann ha riconosciuto in questa stessa direzione, mi pare, che
il motu proprio è un buon motivo per promuovere con nuova attenzione
una celebrazione degna dell’eucaristia e degli altri riti sacramentali. Chiaramente
per la Chiesa tedesca l’obiettivo della riconciliazione interna nel seno della
Chiesa (formula del cardinale Camillo Ruini, in Avvenire dell’8
luglio) diviene un intervento medicinale a spettro ampio, indipendentemente dalla
presenza di minoranze scismatiche.

 

Si conferma, a mio avviso, con la Summorum pontificum il taglio inconfondibile
del programma di Benedetto XV. La sua visione strategica opera ad integrazione-compimento
del magistero di Giovanni Paolo II, con quelle caratteristiche di fermo discernimento
sui temi della verità e della ragione che il cardinale Ratzinger aveva praticato
come prefetto della congregazione per la dottrina della fede. Rendere esplicita e
governare fermamente, nell’unità, una feconda complexio è in profondità
la funzione petrina. Ne valeva, e ne varrà, sicuramente la pena.

 

D. – I rilievi critici sul rito antico non hanno peso? Scarsa presenza della Parola
e del popolo, ritualismo e tentazione magica, infine una liturgia
che dimentica la bellezza del simbolo per diventare pedantemente allegorica…


 

R. – Si tratta, anzitutto, di una caratterizzazione deteriore quanto corrente del
rito antico, che chi lo ha praticano e interiorizzato nella sua formazione cristiana
contesta fermamente. Il rito antico porta con sé, ed esprime in gesti e parole,
ricchezze insostituibili. Ricordo che i maestri della primissima fase della riforma
liturgica, da Martimort a Jungmann al nostro Righetti, al grande liturgista Odo Casel
(meno prossimo al Concilio: era morto nel 1948) e tanti altri, conoscevano la magnificenza
simbolica, non allegorica, del rito cristiano entro e a partire dalla
liturgia gregoriano-tridentina, che non hanno mai pensato di sconvolgere.

 

Opere di filosofia liturgica – se posso esprimermi così – che hanno nutrito
tante generazioni, quelle di Guardini e di Hildebrand, nascono entro lo stesso ordo
e la stessa esperienza. Così Il senso teologico della liturgia
di Cipriano Vagaggini. Una frattura vi fu. Infatti, che hanno a che fare Casel o
Jungmann o il magnifico saggio di liturgia teologica generale di padre
Cipriano (la quarta edizione è del 1965), o la stessa costituzione liturgica
del Concilio, con gli indirizzi della riforma diffusa e dello stesso
Consilium ad exequendam?

 

In questa frattura prende corpo, oserei dire, ufficiosamente nella Chiesa lo stereotipo
evocato nella domanda. Le critiche protestanti e modernistiche al ritualismo e al
magismo della messa avevano sempre ricevuto la loro adeguata risposta. Ma il riformatore,
questa volta il riformatore cattolico, ha bisogno di un contromodello, di un paradigma
negativo, e non va per il sottile.

 

Certo, la riforma forse non guidata ma disciplinata, ed era difficilissimo, da Paolo
VI ha introdotto nell’actio liturgica più Scrittura, più memoriale
e più popolo. Roma riuscì allora con difficoltà (per qualcuno
non vi riuscì del tutto) ad evitare la deriva protestante. Deriva
temibile, perché lex orandi e lex credendi sono legate tra loro
e perché, comunque, nella Tradizione tutto è fortemente connesso. Sequenze
intere di elementi fondamentali simul stant, simul cadunt. Non nascondiamoci che
molte élites teologiche cattoliche, specialmente nelle cerchie europee ecumenizzanti,
lo sapevano e lo speravano.

 

Non si tratta, dunque, di smarrire quello che della vita liturgica attuale apprezziamo;
né è ragionevole pensare che il motu proprio abbia non solo l’intentio
– che non ha – ma la forza obiettiva di produrre effetti indesiderati del genere
e su larga scala. Ma dobbiamo saper prendere atto che Parola e popolo sarebbero da
soli poca cosa (e davvero un po’ magico-teurgica) senza la realtà del Corpo
mistico e del mirabile mysterium praesentiae realis Domini sub speciebus eucharisticis:
realtà che precede, fonda e trascende la comunità orante.