L’INIQUA ASSEMBLEA CHE CONDANNÒ IL MESSIA

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L’INIQUA ASSEMBLEA CHE
CONDANNÒ IL MESSIA

di don Agostino e don Giuseppe Lémann















“La casa di Caifa,
in cui costui ha presieduto la riunione, si è tramutata in un antro inquinato
dalla più assoluta mancanza di giustizia: le enormità che stanno per
verificarsi nel pretorio non ne saranno che le conseguenze. È perciò
il sinedrio, di cui abbiamo fin qui studiato con cura le persone e gli atti giudiziari,
che dev’essere valutato in maniera definitiva!”

Nel corso dell’improvvisato processo a Gesù furono commesse per lo meno ventisette
irregolarità
contro la legislazione penale e processuale del popolo ebraico.
Il libro dei Lémann le pone in evidenza, studiando le ragioni del comportamento
di quel sinedrio.



I fratelli Lémann, Agostino e Giuseppe, erano gemelli, ebrei, francesi,
nati nel 1836, e morti rispettivamente nel 1669 e nel 1915. Sì convertirono
al cattolicesimo, furono ordinati sacerdoti e scrissero, fra le altre cose, opere
destinate a chiarire la storia cristiana ai loro fratelli di etnia e cultura. Fra
queste opere, la presente, breve, concisa, essenziale, molto ben documentata, è
uno studio sul Sinedrio, l’assemblea di settantatre membri che condannò a
morte Gesù, senza averne la competenza, e costrinse Pilato a pronunciare la
condanna effettiva.

Sommario


LETTERA DEL BEATO
PIO IX




VIOLAZIONE
DA PARTE DEL SINEDRIO DI TUTTE LE NORME

E DI OGNI FORMA DI GIUSTIZIA NEL PROCESSO A GESÙ

(Seduta notturna)


PRIMO INTERROGATORIO
DI GESÙ DA PARTE DI CAIFA


DEPOSIZIONE
DEI TESTIMONI


SECONDO INTERROGATORIO
DI GESÙ DA PARTE DI CAIFA


TERZO INTERROGATORIO
DI GESÙ DA PARTE DI CAIFA


LA CONDANNA
PRONUNZIATA DAL SINEDRIO


VIOLAZIONE DA PARTE
DEL SINEDRIO DI OGNI NORMA GIURIDICA

(Seduta del venerdi mattina)


NUOVO E SOMMARIO INTERROGATORIO
DI GESÙ


IL SINEDRIO RINNOVA
LA SENTENZA DELLA VIGILIA


CONCLUSIONE


LETTERA
DEL BEATO PIO IX



















Pio
IX, Papa


PIUS
PP. IX

Cari figli, salute e apostolica
benedizione.
Dilecti Filii salutem et apostolicam
Benedictionem.
La rispettosa lettera che
ci avete indirizzato ai primi del passato dicembre e l’offerta del vostro libro intitolato:
Valeur de l’assemblée qui prononça la peine de mort contre Jésus-Christ,
ci ha confermato sempre meglio del vostro ardente zelo per contribuire alla conversione
del popolo ebraico alla verità cattolica. Ciò basterebbe da solo per
rendere gradito il vostro dono; ma quel che ci ha ulteriormente rallegrato è
l’oggetto in se stesso del vostro saggio, che, dopo averlo letto, ci è parso
utile per gli stessi cattolici, poiché si ripropone di illuminare a giorno
una parte della storia evangelica. Ragion per cui, mentre rivolgiamo al vostro zelo
una meritata lode, nel ringraziarvi delle belle parole che ci avete rivolto, supplichiamo
umilmente il Signore di voler concedere che soprattutto coloro a cui indirizzate
il vostro lavoro, ne possano trarre frutti abbondanti. E siccome, citando l’oracolo
del profeta Osea “i figli d’Israele sono rimasti per lungo tempo privi di re
e di principe, privi del sacrificio e dell’altare” (Os 3,4), possa finalmente
compiersi quel che il medesimo profeta dice: “Dopo queste cose, i figli d’Israele
ritorneranno e cercheranno il Signore loro Dio, e Davide, loro re!”(Os
3,5).

Sostenuti da questa speranza, come testimonio del nostro paterno affetto e pegno
dei divini favori, vi concediamo affettuosamente la benedizione apostolica.
Ex obsequiosis litteris, quas
ineunte mense decembri ad Nos dedistis et ex adjecto dono voluminis cui titulus:
Valeur de l’Assemblée qui prononça lapeine de mort contre Jésus-Christ,
magis magisque perspeximus incensum studium quo judaïcam gentem convertere ad
catholicam veritatem contenditis. Atque haec quidem causa satis erat cur munus vestrum
gratum Nobis accideret; verum quo magis eo delectaremur illud etiam accessit, quod
ex ipso operis argumento et paucis quae exinde delibavimus, Nobis visum sit catholicis
quoque lectoribus utile, cum eo spectet ut pars evangelicae historiae clarius illustretur.
Itaque dum zelum vestrum merita commendatione prosequimur et vobis pro exhibitis
officiis gratias habemus, Deum humiliter rogamus ut uberem ex laboribus vestris fructum
percipiant ii quos maxime adjuvare satagitis; et quoniam juxta Osee vaticinium dies
multos sederunt filii Israel sine rege et sine principe et sine sacrificio et sine
altari
, illud impleri incipiat quod idem subjecit: Et post haec revertentur
fiiii Israel et quaerent Dominum Deum suum et David regem suum
.

Hac spe confisi, testem paternae dilectionis et divinae Benignitatis auspicem Apostolicam
Benedietionem vobis peramanter impertimus.
Roma, dalla Cattedra di San
Pietro, 14 febbraio 1877, trentunesimo anno del nostro pontificato.



Pio IX, Papa
Datum Romae apud Sanctum Petrum
die 14 Februarii 1877, Pontificatus nostri anno trigesimo primo.



Pius PP. IX





VIOLAZIONE DA PARTE DEL SINEDRIO DI TUTTE LE NORME E
DI OGNI FORMA DI GIUSTIZIA NEL PROCESSO A GESÙ

(Seduta notturna)


Al processo a Gesù
vennero consacrate due sessioni. La prima si tenne nel corso della notte del 14 nisan
(aprile), e il resoconto ci vien fatto da Giovanni, da Matteo e da Marco: la seconda,
convocata al mattino di quello stesso giorno, viene registratata da questi ultimi
due, ma soltanto Luca ne fa un dettagliato racconto.

Dunque, il sinedrio si è riunito, stavolta però, non in segreto: si
tratta di processare il Messia in maniera pubblica. Non è in funzione il sinedrio,
come dire l’assemblea delle tre camere che rappresentano l’intera nazione, dei sacerdoti,
degli scribi e degli anziani? La cosa dev’essere affrontata pubblicamente. I soldati,
preso Gesù, lo condussero al palazzo del principe dei sacerdoti, Caifa, in
cui tutti i sacerdoti, gli scribi e gli anziani erano riuniti in assemblea plenaria”
(Mt 26, 57; Mc 14, 53).

“Era di notte” – precisa Giovanni – : “erat autem nox“.
“E la coorte degli aiutanti dei sacerdoti lo condussero, armati di spade e di
bastoni, alla luce di lanterne e di torce” (Gv 13, 30; 18, 3). Ecco una
prima irregolarità, giacché la legge giudaica proibiva che si
giudicasse alcuno nelle ore notturne: “Se si ha per le mani un affare punibile
con la pena capitale, lo si tratti durante il giorno, ma lo si sospenda col giungere
della notte” (Mischna, trattato “Sanhédrin“, c. 4, 1).

Anche il sacrificio vespertino aveva avuto termine, e di qui proviene una seconda
irregolarità
: “Non siederanno in giudizio che dal mattino sino alla
sera” (Talmud di Gerusalemme, trattato “Sanhédrin“,
c. 1, 19).

Era infine il primo giorno degli azzimi, vigilia della grande solennità della
Pasqua, il che costituisce una terza irregolarità: “Non giudicherete
alcuno né la vigilia del sabato, né la vigilia di un giorno di festa”
(Mischna, trattato “Sanhédrin“, c. 4, 1).










PRIMO INTERROGATORIO DI GESÙ DA PARTE DI CAIFA


“Nel frattempo Caifa
interrogava Gesù” (Gv 18, 19). È Caifa in persona che interroga,
quel medesimo Caifa che aveva dichiarato qualche tempo prima, nel corso dell’assemblea
generale del sinedrio tenutasi nel suo palazzo a motivo della risurrezione di Lazzaro,
che il bene pubblico esigeva imperiosamente la morte di Gesù il Nazareno.
È mai possibile? Colui che si è costituito accusatore si permette di
sedere in veste di giudice, e ancor peggio, come presidente del processo giudiziale!
Siamo di fronte a una quarta irregolarità, una disgustosa irregolarità,
poiché tutte le legislazioni umane, e in particolare quella ebraica, rifiutano
all’accusatore il diritto di sedere come giudice: “Se […] un testimone comincia
a accusare un uomo d’aver violato la legge, in questa lite, essi si presenteranno
entrambi dinanzi al Signore, alla presenza dei sacerdoti e dei giudici che saranno
allora in funzione” (Deut. 19, 16-17). Di qui si vede come l’accusatore
e il giudice debbano essere distinti tra di loro; non dovendosi confondere i ruoli!
Qui invece la confusione è evidente: Caifa, che ieri aveva accusato il Cristo,
oggi siede nell’assemblea e si accinge a giudicare. Mostruosità giudiziaria,
che Giovanni ha tenuto a mettere in risalto soprattutto nel suo racconto della Pasqua:
“Caifa era colui che prima aveva dato il consiglio secondo cui il popolo poteva
avvantaggiarsi dalla morte di quel solo uomo” (Cf Gv 18,14).

“Lo interrogava sui suoi discepoli e sulla dottrina da lui predicata” (Gv
18, 19). Caifa, che è insieme e giudice e accusatore, anziché cominciare
col produrre dei testimoni e indicare i capi d’accusa, come esigeva la legge ebraica
(“Se si troverà in mezzo a voi un uomo o una donna che sia stato accusato
di aver commesso il male davanti al Signore, voi indagherete accuratamente se il
suo accusatore è credibile […] e sulla deposizione di due o tre testimoni
… ; vedi Deut 17, 2-6), dunque, Caifa, comincia il dibattimento con un interrogatorio
capzioso, in modo da poter prendere in fallo Gesù per proprie ammissioni.
Tale modo di procedere costituisce una quinta irregolarità, poiché
non vi poteva essere niente di più inaccettabile che di fare ammettere alcunché
a un uomo sul conto del quale non vi è nulla di cui lo si possa ritenere colpevole.
Cosa può esservi di più inaudito che cominciare un processo chiedendo
a una persona di accusare se stesso e senza presentargli invece un qualche capo d’accusa!

“Gesù gli rispose: ‘Ho parlato in pubblico, ho sempre insegnato nelle
sinagoghe e nel Tempio ove si radunano i giudei, senza dir mai nulla in segreto:
di cosa dunque mi interroghi? Interroga coloro che mi hanno ascoltato, essi sanno
quel che ho detto pubblicamente, e potranno perciò risponderti'” (Gv
18, 20-21).

La risposta del Cristo pone in piena luce l’illegalità che Caifa stava commettendo
dando inizio all’interrogatorio senza aver formulato contro di lui, preliminarmente,
alcun capo d’imputazione. Prima d’interrogare l’imputato, i giudici hanno l’obbligo
di produrre qualche preciso capo d’accusa, precisando le imputazioni su cui poi i
giudici dovranno pronunziarsi. “Perché non mi interrogate voi?”,
o meglio: “Vorreste che io accusi me stesso? Non avete voi qualcosa da rimproverarmi?
Se l’avete, presentatemi l’oggetto della mia accusa, e chiedetemi se io lo ammetto.
Se invece non avete nulla da ridire sul mio conto né da parte vostra e neppure
in base a testimonianze altrui, qualcosa inerente la dottrina da me pubblicamente
esposta, come potete pretendere che io mi dichiari colpevole, accusando me stesso?
O, in altri termini, non vi rendete conto che agendo così, voi stessi mi assolvete
da ogni accusa, e in base alla nostra legge mi assolvete, se vi appoggiate unicamente
a una mia eventuale ammissione di colpevolezza?”. “Per noi è norma
fondamentale che nessuno può recare pregiudizio a sé stesso [Nemo tenetur
laedere seipsum]” (Mishna, trattato “Sanhédrin“, c.
6, 2).

“Aveva appena risposto con quelle parole, che un inserviente là presente
gli diede uno schiaffo, dicendo: ‘Così rispondi al pontefice?'” (Gv
18, 22).

In questa inaudita brutalità da parte di un servo del tribunale alla presenza
del presidente e dei giudici vi è una sesta irregolarità. È
infatti un’ingiustizia che grida vendetta al cospetto del cielo il permettere, presidente
e giudici, che in loro presenza si osi maltrattare senza motivo né autorizzazione
l’imputato comparso in tribunale. Non si ordina forse, in tutte le legislazioni civili,
che chiunque sia accusato debba godere della protezione della legge e dei giudici,
fintanto che la sua colpa non sia stata dimostrata? Qui, il silenzio che accompagna
l’ingiusta aggressione e l’impunità concessa all’inserviente facile a menar
le mani, sono un’ulteriore riprova che quell’assemblea ratifica e accetta l’illegalità.
Sono prove evidenti della non equità dei giudici e in particolare di colui
che presiedeva. Poiché se la Bibbia e la Mischna ingiungono d’impiegare nei
confronti dell’accusato modi ispirati all’umanità e alla benevolenza (“Figlio
mio, confessa la tua colpa […]. Mia cara figlia, qual’è stata la causa del
tuo peccato?” (Gs 7, 19). – Mischna, trattato “Sota“,
c. 1, 4), a maggior ragione viene a essere proibito ogni ricorso a una violenza ingiusta
e alla brutalità

“Gesù gli rispose: ‘Se ho detto qualcosa di male, dimmi dove ho sbagliato;
se invece parlo bene, perché mi percuoti?'” (Gv 18, 23).

Voleva dire: “Se mi sono espresso male contro il pontefice o contro la verità,
dimmi dove ho mancato, fammelo capire. Ma se invece non l’ho offeso in alcun modo,
né ho detto cose palesemente contro la verità; se mi sono limitato
a indicare, com’era mio diritto, l’ordine naturale del procedere ma senza usare parole
offensive contro nessuno, allora perché mi picchi?”. Cristo avrebbe potuto
anche usare parole assai più forti non solo contro quell’indegno inserviente,
ma contro il sommo sacerdote che, da presidente, autorizzava tranquillamente una
così violenta reazione. “Se non lo fece, fu perché non voleva
disonorare il sacerdozio nemmeno in una persona che cosi indegnamente ricopriva quell’alto
incarico. Tuttavia non mancò di difendere con forza dignitosa la propria innocenza”
(San Cipriano, “Epist. 55 ad Corn.“, p. 144).

DEPOSIZIONE
DEI TESTIMONI

“Nel frattempo i
principi dei sacerdoti e l’intero consiglio cercavano un falso testimone contro Gesù
per aver di che condannarlo a morte, ma essi non riuscivano a trovarne, di validi,
sebbene diversi si fossero presentati [con quell’intento]”, (Mc 14, 55.
Mt 26, 59-60).

Dopo la risposta di Gesù, che aveva fatto formale richiesta che si sentissero
eventuali testimoni, diventava impossibile condannarlo se non ci fosse stato nessun
testimone a deporre contro di lui. Cosa fa a quel punto il sinedrio? Sguinzaglia
tra la folla degli incaricati per cercare gente disposta a giocare quel ruolo; si
giunge perfino a subornare qualcuno di pochi scrupoli. È una mostruosa iniquità!
Commettendo una settima irregolarità non solo ci si astiene dall’esaminare
con cura la qualità e credibilità dei testimoni e la verità
di quel che avrebbero dichiarato ma si arriva, ed è un’ottava irregolarità,
a violare la legge fondamentale che prescriveva ai giudici nel far prestar giuramento
ai testimoni, di non dire null’altro che la verità: “Bada che su di te
pesa una grave responsabilità…” (Mischna, trattato “Sanhédrin“,
c. 4, 5). Ma v’è di peggio: quei giudici iniqui, subornando falsi testimoni,
cadono anch’essi sotto i colpi minacciati dalla Legge, che faceva loro espresso obbligo
di punire i falsi testimoni: “Li tratteranno come se avessero macchinato di
tradire un loro fratello; vita per vita, dente per dente, occhio per occhio!”
(Deut 19, 18,19. 2 1). Eppure essi violano apertamente quella legge, sia essi
stessi, sia inducendo a violarla altre persone. È la nona irregolarità!
Possiamo affermarlo: non siamo più di fronte a dei giudici ma a un raduno
di omicidi, assetati del sangue di un giusto. Nulla può servire da paragone
se non quell’altra iniquità che venne compiuta per ordine di Gezabele, quando
si trattò di condannare l’innocente Naboth.

“Essa scrisse lettere a proposito di Naboth, col sigillo del re. Poi le inviò
agli anziani e agli uomini principali della città in cui Naboth abitava. Nelle
lettere scrisse: ‘Bandite un digiuno e fate sedere Naboth in prima fila tra il popolo.
Di fronte a lui fate sedere due uomini iniqui, i quali l’accusino dicendo: ‘Hai maledetto
Dio e il re!’ Quindi conducetelo fuori e lapidatelo ed egli muoia’. Gli uomini della
città, gli anziani e i capi che abitavano nella sua città, fecero come
aveva ordinato loro Gezabele, ossia come si ordinava nelle lettere che aveva loro
spedito. Bandirono il digiuno e fecero sedere Naboth in prima fila tra il popolo.
Vennero due uomini iniqui, che si sedettero di fronte a lui. Costoro accusarono Naboth
davanti al popolo affermando: ‘Naboth ha maledetto Dio e il re!’ Allora lo condussero
fuori della città e lo uccisero lapidandolo” (1 Re, 21, 8-14).

Ma proseguiamo nella deposizione dei testimoni.

“Molti attestavano il falso contro di lui ma le loro testimonianze contro di
lui non erano però concordi. Alcuni si alzarono per testimoniare il falso,
dicendo: ‘Noi lo abbiamo udito mentre diceva: Io distruggerò questo tempio
fatto da mani d’uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani
d’uomo’. Però nemmeno su questo punto la loro testimonianza era concorde”
(Mc 14, 56-61). – cf Mt 24, 60).

Prima di esaminare questa doppia deposizione nettamente formulata, cominciamo col
segnalare una decima irregolarità: due testimoni si presentano e depongono
assieme, il che è contro la legge. I testi infatti non dovevano deporre se
non separatamente l’uno dall’altro: “Separateli tra loro, quindi li esaminerete”
(Dan 13, 51).

E veniamo al contenuto delle deposizioni. Stavolta sarebbero state d’importanza capitale.
Sappiamo quanto il popolo giudaico fosse geloso della gloria rappresentata dal Tempio.
Per aver annunziato che “Dio ridurrà un giorno il Tempio nelle stesse
condizioni di Silo, ossia in un deserto” (Ger 26, 6. 19), Geremia aveva
rischiato d’essere lapidato dai sacerdoti e dal popolo; se era scampato da una morte
sicura, ciò fu dovuto all’intervento di possenti signori, che avevano influenza
sul tribunale. L’accusa formulata contro Gesù dai due testimoni era di sicuro
della massima gravità. L’attenzione dell’intero sinedrio si ravvivò,
e si cominciò a sperare d’aver trovato infine un motivo sufficiente per convincere
i giudici di una sua colpevolezza e di poterlo giuridicamente condannare.

Ciò a patto che la deposizione dei testimoni fosse stata vera e concorde.
Ma lungi dall’avere tali qualità rigorosamente esigite dalla legge ebrea,
ciascuna delle deposizioni, come vedremo, si rivelò falsa e discorde tra loro.

Erano false perché:

1°) – Non riferivano in realtà le parole pronunziate dall’autore. Gesù
infatti non aveva detto né “io posso distruggere”, né “io
distruggerò” – come avevano affermato i due testi, per gettare gravi
ombre su di lui – ma “distruggete!”. “Distruggete questo tempio e
io lo ricostruirò entro tre giorni!” (Gv 2, 19); parole ipotetiche, insufficienti
a costituire un carico serio contro l’imputato, poiché esse potevano significare:
“Supponete che questo tempio venga distrutto, ecc.”. Orbene, per poter
fornire al sinedrio che era impaziente di sentirlo accusare di un delitto davvero
grave e punibile con la morte, i testimoni cercano di porre, inutilmente, sulle labbra
del Cristo queste parole, assolute e minacciose: “Io posso distruggere, io distruggerò!”

2°) – Poi i testimoni erano falsi anche perché attribuivano alle parole
del Cristo un senso del tutto diverso da quello inteso da lui. Gesù infatti,
nel pronunziare la frase, aveva fatto allusione al tempio vivo che era il suo corpo,
ed era perciò lontanissimo dal far riferimento al tempio materiale di Gerusalemme.
Giovanni, che le aveva sentite di persona, lo afferma espressamente: “Egli intendeva
parlare del proprio corpo” (Gv 2, 21). Del resto, per esserne pienamente
convinti, basterà esaminare le parole precise usate dal Cristo. Proprio per
non lasciare spazio al minimo dubbio circa la propria intenzione, Gesù aveva
usato la parola “solvite“, termine che i falsi testimoni vorrebbero
far equivalere a “distruggere” ma che, nella sua più ovvia e naturale
accezione sta per “rompere i legami: sciogliere”. È chiaro il riferimento
al corpo animato, tempio vivo, di cui si può rompere o sciogliere il legame
con l’anima mediante la morte; e dunque ogni riferimento al tempio materiale è
del tutto abusivo. Però quel che conferma definitivamente il vero senso inteso
dal Cristo, lo si ricava dalle parole finali di quella frase: “E in tre giorni
io lo farò risorgere. Lo richiamerò in vita!”. Se insomma Gesù
avesse inteso alludere al tempio materiale di Gerusalemme, si sarebbe servito delle
parole “distruggere” e “riedificare”; ma siccome egli non aveva
in mente nient’altro che il tempio mistico che era il suo sacro corpo, egli aveva
volutamente usato i termini “rompere i legami” e “risuscitare”.
Il parallelismo di queste espressioni, impiegate a ragion veduta, dovrebbero essere
sufficienti per discolpare Gesù da ogni intenzione iconoclasta, il cui oggetto
sarebbe stato il Tempio di Gerusalemme. E la conclusione, relativamente ai testimoni,
non poteva essere che la seguente. Delle due, l’una: o avevano capito male la frase
detta da Gesù (come l’avevano fraintesa altri giudei, lì presenti,
che avevano ribattuto: “Questo Tempio è stato costruito in quarantasei
anni, e tu lo ricostruiresti in soli tre giorni?!”), oppure ne avevano afferrato
benissimo il pensiero, ma con maligna intenzione lo stavano presentando in tutt’altro
senso da quello in cui era stato detto. E allora essi erano doppiamente dei falsi
testimoni: perché non solo attribuivano a Gesù le parole “io posso
distruggere!”, “io distruggerò!”, mai pronunziate né
intese dal Cristo, ma ancora perché riferivano in malafede al Tempio di Gerusalemme
parole che non si riferivano a esso. In sostanza, perché consapevolmente falsano
il significato di quelle parole.

Ma v’è di più. Anche nel caso che essi avessero deposto il vero e Cristo
avesse realmente pronunziato le parole che essi gli ponevano sulla bocca, la loro
deposizione non poteva essere giuridicamente accettabile. E diciamo subito il perché.
Stando alla legge ebraica, “una testimonianza perdeva ogni suo valore se chi
la faceva non era d’accordo con essa in tutte le sue parti” (Mischna, trattato
Sanhédrin” 5, 2). Se ad esempio si trattava del crimine
d’idolatria, ritenuto il peggiore dall’antico stato giudaico, “se un testimone
assicurava di aver visto un israelita adorare il sole, mentre un secondo dichiarava
di averlo visto in adorazione della luna, sebbene entrambi i particolari facessero
pensare a riti idolatrici, la prova era da scartare come incompleta, e l’accusato
veniva rimesso in libertà” (Maimonide, trattato “Sanhédrin
c. 20 e sgg.). Qualcosa del genere si ripeteva nel caso dei due falsi testimoni alzatisi
ad accusare il Cristo, alla presenza dei giuristi del sinedrio.

Sostenendo che Gesù aveva detto: “Io distruggerò questo tempio
fatto da mani d’uomo”, il primo di essi gli attribuiva il disegno di attentare
contro la religione e contro un bene del patrimonio nazionale; mentre dall’altra
deposizione “Io posso distruggere il tempio di Dio” del secondo testimone
si poteva solamente indurre a pensare in una parola uscita dalla bocca di un fanfarone
o megalomane. Dunque non vi era conformità tra le due testimonianze, come
fa notare opportunamente S. Marco (“Nemmeno su questo punto la loro testimonianza
era concorde” – Mc 14, 59), di conseguenza, a meno di commettere un’undicesima
irregolarità
, Gesù aveva ogni diritto d’essere rimesso in libertà,
pienamente assolto!










SECONDO INTERROGATORIO DI GESÙ DA PARTE DI CAIFA


E invece, detta undicesima
irregolarità venne realmente commessa. Anziché scartarle come gli imponeva
un’equa amministrazione della giustizia, Caifa prende per buone le discordanti deposizioni,
e ne fa anzi il punto di partenza d’un secondo interrogatorio.

“Allora il sommo sacerdote, levatosi in mezzo all’assemblea, interrogò
Gesù dicendo:’Non rispondi nulla? Cosa testimoniano costoro contro di te?'”
(Mc 14, 60).

Era come dirgli: “Non ti rendi conto della gravità delle accuse che ti
rivolgono costoro? Perché te ne stai zitto. Parla, dunque…” Caifa attendeva
che il Cristo, toccato nell’amor proprio, desse delle spiegazioni e fosse condotto
dalle sue stesse parole dove magari non avrebbe voluto.

“Ma egli continuava a tacere, e non rispose nulla” (Mc 14, 61).

La causa di Gesù si difendeva da sé, ed egli non aveva da far nulla
per tutelarla. Avendo fatto allusione non al Tempio materiale di Gerusalemme bensì
al mistico tempio del proprio corpo, la spiegazione della frase incriminata la si
poteva trovare unicamente nel significato letterale delle parole da lui dette e non
già nelle ambigue allusioni attribuitegli dai falsi testimoni. Quanto a Caifa,
Gesù non gli risponde parola per fargli comprendere che aveva inteso quale
fosse il suo gioco. Il suo silenzio era un rimprovero fin troppo eloquente. In quel
momento si stava compiendo una profezia di Davide: “Coloro che cercano un pretesto
per togliermi la vita e vorrebbero perdermi affermando falsità, non pensano
che a tendermi tranelli. Ma io sarò verso di loro come un sordo che non sente
quel che gli dicono, e come un muto che non apre bocca” (Sal 37, 13 -15).

È stupefacente che questo tranquillo e maestoso silenzio di Gesù non
abbia aperto gli occhi ai giudici. È davvero cosa assai strana restarsene
in silenzio dinanzi a situazioni in cui si sta correndo il rischio d’essere messo
a morte! Tra non molto Pilato, quantunque sia pagano, resterà colpito da un
analogo, maestoso silenzio che il Cristo manterrà in sua presenza; verrà
assalito dal dubbio e dal rispetto per quell’uomo, e farà non pochi sforzi
per cercare di risparmiargli la vita. Ma qui Caifa e il sinedrio, anziché
riconoscere dal volontario silenzio Colui di cui aveva profetizzato Isaia, proprio
riferendosi al silenzio e all’atteggiamento remissivo: “Egli resterà
in silenzio come un agnello davanti a chi lo tosa” (Is 53,7), Caifa e
l’assemblea si sentono invadere da un crescente furore. Vogliono far cessare quel
silenzio accusatore che li confonde e li domina. Occorre trovare un via d’uscita!
Una via che consenta di porre termine a quell’assurda situazione. E Caifa alla fine
riuscirà a trovarla…

TERZO
INTERROGATORIO DI GESÙ DA PARTE DI CAIFA

“Di nuovo il sommo
sacerdote lo interrogò, dicendogli: “Ti scongiuro per il Dio vivente,
di dirci se tu sei il Messia, l’Eletto, il figlio di Dio benedetto!” (Mc
14, 6 1; Mt 24, 63).

Una cosa della massima importanza da tener presente è che ha avuto luogo un
improvviso cambio nel capo d’accusa. Infatti non si parla più né di
testimoni né di testimonianze; Caifa, per così dire, le ha buttate
nel cestino della carta straccia e, tutto a un tratto, riconosce insufficienti tutte
le deposizioni così affannosamente cercate e esposte fin allora con pessimi
risultati; egli confessa, data la medesima necessità in cui si vede stretto
d’interrogare egli stesso Gesù, che non possedeva uno straccio di prova da
produrre contro di lui. Ma allora, ci si chiede, perché Gesù è
li davanti a lui e al sinedrio strettamente legato? Perché lo si è
trascinato davanti all’assemblea come un malfattore, se ancora non si sa praticamente
nulla di lui, e ci si sforza di ottenere queste informazioni dalla sua stessa voce?

I testi e le loro fasulle deposizioni dunque sono state scartate. Cambio di scena,
in cui ha rilievo soltanto lui, Caifa. Lui, già giudice e presidente del tribunale,
si abbassa al rango dei testimoni e assume per la seconda volta il ruolo di accusatore.
Ma nel dichiararsi fino a quel punto contrario a Gesù, mentre che le sue funzioni
istituzionali gli vieterebbero ogni altra cosa che non sia quella d’essere giudice
sia sulle accuse, sia sulla difesa dell’imputato, ecco profilarsi una dodicesima
irregolarità
.

E subito appresso, una tredicesima, che si trova nella richiesta supplicante
che rivolge al Cristo: “‘Ti scongiuro per il Dio vivente, di dirci se tu sei
il Cristo!” Questa impegnativa richiesta avrebbe dovuto venir rivolta ai testimoni,
per scongiurarli di dire solo la verità. Lo esigeva la Legge: “Bada che
ti stai caricando di una grave responsabilità [ … 1 Se tu facessi condannare
ingiustamente l’accusato, Dio te ne chiederà conto, come lo richiese a Caino
del sangue di Abele! ” (Mischna, trattato “Sanhédrin
c. 4, 5). Ma se il giuramento era obbligatorio per i testimoni, non era consentito
all’accusato poiché lo avrebbe messo nell’alternativa di essere sper-giuro
o di incriminare sé stesso: “Per noi è basilare che nessuno possa
arrecare danno a sé stesso” (Mischna, trattato “Sanhédrin“,
c.. 6, 2). Ora, in quell’iniquo processo non era stato richiesto alcun giuramento
dai testimoni, e lo si esige dall’accusato! Questa grave infrazione alla morale e
alla giurisprudenza, un profeta l’aveva preannunziata e stigmatizzata [e di ciò
portiamo di seguito due versioni:, che però fondamentalmente concordano]:
“Ti han sempre sulla bocca, o mio Dio, nella speranza di riuscire nei disegni
criminosi. Sono tuoi nemici, e osano ugualmente invocare il tuo nome! ” (dalla
Volgata) “Essi parlano di te nei loro letti infamanti e giurano il falso nelle
tue città” (la moderna versione della Cei). (Sal 138, 20).

Riguardo all’interrogazione, nel suo contenuto, non era altro che un trabocchetto
da parte di Caifa. Chiedendo a Gesù che, nel nome del Dio vivente, dichiarasse
se era o meno Figlio di Dio, Caifa prevedeva che, qualunque fosse stata la sua risposta,
non poteva avere per conseguenza se non la pena di morte. Infatti, se Gesù
(pensava Caifa) nega d’essere Figlio di Dio, sarà condannato in quanto impostore
poiché pubblicamente aveva insegnato il contrario. Se invece avesse osato
dichiararsi Figlio di Dio, la condanna non era meno sicura, perché si sarebbe
reso colpevole di bestemmia. Dunque la negazione era un crimine, e del pari l’ammissione.

Gesù diede questa risposta: “Lo sono, come hai detto tu!” (Mc
16, 61-62).

Gesù si inchina dinanzi alla maestà di Dio, perfino sulle labbra del
sommo sacerdote. Egli cede a una domanda di cui conosce la recondita malizia, ma
che è rivestita di ciò che vi è di più augusto nella
religione. Non si era ingannato circa la simulazione del pontefice, ma egli vuole
onorare il nome divino di cui quell’uomo si serve per nascondere la propria malizia.










LA CONDANNA PRONUNZIATA DAL SINEDRIO


“Allora il principe
dei sacerdoti si strappò le vesti, dicendo: ‘Ha bestemmiato! A questo punto,
abbiamo ancora bisogno di testimoni? Tutti voi avete appena adesso sentito la bestemmia.
Che ve ne pare?” (Mt 24, 65-66).



Siamo ormai al sipario che cala, mentre le irregolarità quasi non si contano
più. Il sommo sacerdote si strappa le vesti. Un giudice che si irrita fino
al punto di lacerarsi l’abito pontificale! Non vi è solo una quattordicesima
irregolarità
in materia di giustizia, ma il venir meno a quella dolcezza
e a quel rispetto che la legge prescriveva al giudice nei confronti dell’accusato,
[e qui riportiamo un testo già più volte citato]: “Figlio mio,
ammetti la tua colpa [ … I. Mia cara figliola, qual’è la causa che ti indotto
in peccato?” (Gs 7, 19. – Míschna, trattato “Sota
c. 1, 4).

E vi è inoltre violazione della legge religiosa, che espressamente proibisce
al sommo sacerdote di strapparsi le vesti. Tale gesto poteva essere compiuto da qualunque
ebreo, in segno di grande dolore. Ma non era consentito al grande pontefice: glielo
proibiva un divieto assoluto poiché le sue vesti, stabilite da Dio, erano
figura del sacerdozio in sé stesso: “Il pontefice, cioè colui
che rappresenta il sommo sacerdote tra i suoi fratelli, sulla cui testa è
stato versato l’olio dell’unzione, le cui mani sono state consacrate per compiere
le funzioni sacerdotali ed è rivestito dei santi abiti, non strappi mai queste
sue vesti” (Lev 21, 10). Strappa le tue vesti, Caifa! Non sarà
trascorso un giorno, che il velo del Tempio lo sarà del pari, per far capire
a tutti che il sacerdozio d’Aronne e il sacrificio della Legge di Mosè sono
stati ormai aboliti, al fine di lasciare spazio all’eterno sacerdozio del Pontefice
della Nuova Alleanza!

“Costui ha bestemmiato!’. In questo grido convergono due nuove irregolarità.
Una quindicesima poiché in quel modo si incriminava la risposta dell’accusato
prima di aver concluso l’esame. La risposta era stata data negli stessi termini in
cui Caifa aveva avanzato la domanda. Aveva chiesto a Gesù: “Sei tu il
figlio di Dio?” e Gesù aveva risposto: “Lo sono”. Doveva a
quel punto esaminarsi se il Cristo diceva il vero: lo esigeva l’equità. Comandate
che vengano presentati i libri santi, apriteli dinanzi al tribunale, richiamate alla
memoria a uno a uno tutti i caratteri del Messia, cercate soprattutto se egli debba
essere Figlio di Dio. Fatto questo, confrontate gli elementi raccolti dalla Scrittura
e raffrontateli con l’uomo che vi sta davanti, e che si proclama figlio di Dio. Se
di tutti gli elementi annunziati dai profeti ne mancasse anche soltanto uno, allora
sì, potete dire, anzi dichiarare solennemente che egli ha bestemmiato! Ma
incriminare la sua risposta prima di averla sottoposta a una sia pure superficiale
indagine, non equivale a commettere un atto iniquo e palesemente odioso? Non è
un insultare la giustizia? Non è violare i più elementari doveri del
vostro incarico, che è quello di esaminare per bene ogni cosa? “Quando,
dopo un approfondito esame – dice il Deuteronomio – voi avrete riconosciuto, ecc
(Deut 19, 18). Avete sentito? “Dopo un esame accurato!” E qui, invece,
non vi è nemmeno l’ombra di un qualsiasi esame! I giudici soppeseranno ogni
cosa nella sincerità della propria coscienza”, aggiunge la Mischna (trattato
Sanhédrin” 4, 5), ma qui in cambio la coscienza viene a
essere soffocata…

L’altra irregolarità, la sedicesima, commessa da Caifa quando grida:
“Ha bestemmiato!”, sta nel fatto che egli si permette di prevenire i pareri
degli altri giudici li presenti. Qualificando di bestemmia la risposta dell’accusato,
egli priva di ogni libertà nel suffragio che competeva ai giudici subalterni.
“Io assolvo” oppure “Io condanno” doveva essere, secondo la Mischna
(trattato “Sanhédrin” c. 5, 5), la formula mediante cui esprimere
il proprio voto. Gridando invece “Egli ha bestemmiato!”, Caifa non lascia
più ai suoi colleghi la possibilità di emettere una diversa opinione,
poiché l’autorità del sommo sacerdote era, presso i giudei, ritenuta
infallibile.

Eccolo però farsi ancor più ingiusto: “Che bisogno abbiamo noi
di testimoni?” Come! Un giudice che osa proclamare che si può fare a
meno di testimoni, mentre è la Legge che lo esige! Non sa forse che la Legge
spesso scende fino ai dettagli più piccoli? Non ha forse determinato che a
ciascun testimone dovranno essere poste sette precise domande? Le abbiamo viste di
già, però qui tornano assai utili. “Era l’anno del giubileo? O
era invece un anno ordinario? In che mese la cosa ha avuto luogo? In quale giorno
del mese? A che ora? Dov’è successo? Si tratta di questa persona qui?”
(Mischna, trattato “Sanhédrin“, c. 5, 1). Ma Caifa, che non
attende altro che di vederlo condannato e al più presto, calpesta l’intera
procedura processuale, e quel che è peggio, addirittura la sopprime: ed è
una diciassettesima irregolarità.

E ne commette subito appresso un’altra: “Cosa ne pensate di costui?”. Nulla
vi era di più irregolare che chiedere che il suffragio venisse espresso pubblicamente
e in generale. “Ciascuno parlerà quando sarà il suo turno – dice
la Mischna -, i giudici si esprimeranno per assolvere o condannare” (trattato
Sanhédrin” c. 15, 5). Ciascuno al suo proprio turno, Caifa!
Tu invece fai emettere una condanna, e tutti in massa! E poi, quale amara derisione!
Dopo essersi stracciate le vesti con le espressioni dell’orrore più profondo;
dopo aver, con quel gesto, trasmesso agli astanti una sorta di terrore religioso;
dopo aver qualificato come orribile bestemmia la risposta di Gesù; dopo aver
dichiarato che non c’era più bisogno di nuove testimonianze per condannare
quest’uomo alla pena capitale, chiedere ai propri colleghi cosa gliene sembrasse,
non è la più amara delle derisioni?

E la risposta del sinedrio fu quella che egli aveva previsto.

Tutti risposero: “È degno di morte!” (Mt 26, 66; Mc
14, 64). Quante irregolarità in questa sentenza!

Eccone una diciannovesima, perché non vi fu nessuna deliberazione legale
e i giudici, andando dietro all’asserzione di Caifa, espressero precipitosamente
una sentenza di morte: “dopo aver giudicato la questione, i giudici si riuniranno
e riprenderanno tra loro l’esame della causa” (Míschna, trattato “Sanhédrin“,
c. 5, 5).

Vi fu ancora una ventesima irregolarità, poiché la sentenza
è stata emessa lo stesso giorno in cui il processo aveva avuto inizio, mentre
che, stando alla Legge, essa doveva essere differita all’indomani. “Ogni giudizio
criminale può aver termine nel medesimo giorno d’inizio se la sentenza è
favorevole all’imputato. Ma se dovrà essere eseguita una condanna a morte,
il processo non potrà dirsi concluso se non il giorno appresso” (Mischna,
trattato “Sanhédrin“, c. 4, 1).

Ed ecco una ventunesima irregolarità, poiché i due scribi segretari
non avevano raccolto i voti, e addirittura i giudici non avevano votato: “Ad
ognuna delle estremità del sinedrio prendevano posto dei segretari incaricati
di raccogliere i voti: uno, quelli che assolvevano; l’altro, quelli che condannavano”
(Mischna, trattato “Sanhédrin“, c. 4, 3).

Ecco come si svolse quella sessione notturna, profeticamente descritta in un oracolo
pronunziato da Davide: “Un’assemblea di malvagi mi ha trascinato in mezzo a
essa. Uomini peccatori si sono dati appuntamento, aspettando solo l’occasione buona
per perdermi” (sal 21 e 118). Ventuno irregolarità vennero
commesse quella notte
, e non un solo giudice si levò a protestare. E quel
che sottolinea il Vangelo: “Omnes – ossia tutti -, gridarono assieme:
‘Merita la morte!'” (cf Mc 14, 64). Non è senza motivo che l’evangelista
rimarcò la cosa. Equivale a un’esclamazione sentenziosa, come un gemito di
dolore per uno scandalo, come un mettere in risalto una grande sorpresa. Essa significa
che è stupefacente che, tra le settantadue persone che avrebbero dovuto essere
presenti in un’assemblea plenaria del sinedrio, non se ne sia trovata una sola con
quel minimo di coscienza e di coraggio per protestare contro una così illegale
e inaudita maniera di procedere. I partecipanti all’assemblea erano devoti e forse
succubi di Caifa, e corrotti al pari di lui. Così, non vi fu alcuna protesta
contro quel cumulo di irregolarità.

Nessuna voce, neppure una, a favore della sua difesa. E dire che la Legge giudaica
autorizzava chiunque a prendere la parola a favore dell’imputato; era un intervento
considerato come un atto di attenzione misericordiosa: “Quando io mi recavo
alla porta della città [per giudicare chi avesse bisogno], ero capace di spezzare
le mascelle all’ingiusto, strappandogli la preda di bocca” (Gb 29, 16-17)

Però va detto che in quella seduta notturna, gli unici due membri del sinedrio
che avrebbero sicuramente preso la parola in favore dell’accusato – Giuseppe d’Arimatea
e Nicodemo -, non erano presenti! Essi si erano rifiutati di partecipare a una seduta
irregolare, che si era voluto convocare nottetempo e alla vigilia della solennità
pasquale. Anche se già in anticipo potevano dichiararsi sicuri che le loro
voci non sarebbero state ascoltate (già in un precedente consiglio la protesta
di Nicodemo era stata sdegnosamente respinta: “Numquid et tu Galileus es?[,
ossia]: per caso sei anche tu seguace del Galileo [Gesù]?”; Gv
7, 52), entrambi si erano dissociati dai disegni e dagli atti illegali del sinedrio.
Il Vangelo lo dice espressamente di Giuseppe d’Arimatea: “Egli non aveva aderito
alla decisione e all’operato degli altri […] e aspettava il regno di Dio”
(Lc 23, 50-51). Non possiamo dubitare che la medesima cosa si sarebbe potuta
ripetere di Nicodemo, che aveva preso coraggiosamente le difese del Cristo.

Così, il povero accusato rimase lì in mezzo, solo e senza nessuno che
cercasse di difenderlo. Quando gli undici figli di Giacobbe si accordarono di mettere
a morte Giuseppe, due di essi, Ruben e Giuda, presi dai rimorsi, alzarono la voce
per dire almeno: “Sarà meglio che lo vendiamo agli ismaeliti, senza macchiarci
le mani, poiché alla fin fine è nostro fratello e partecipe della medesima
carne” (Gn 37, 27).

E quando il traditore Achitofel persuase nel consiglio presieduto da Absalon di perseguitare
e far morire Davide, uno straniero, Cusai d’Arachi, prese le difese dello sfortunato
monarca, tradito dai propri sudditi e inseguito dal proprio figliolo (2 Sam 15,
32 e 17, 1-14). Qua invece, non una sola voce si leva compassionevole in favore di
colui che era nostro fratello più che Giuseppe, più re e padre che
Davide. Il povero innocente vide compiersi alla lettera la profezia annunziante che
sarebbe stato abbandonato alla più completa indifferenza: “Sono caduto
in oblio come un morto” (Sal 30,13).

Allorché il sinedrio, interpellato da Caifa, ebbe dichiarato all’unanimità
che Gesù meritava la morte, si fece segno alla soldataglia di prenderlo in
consegna e di custodirlo a vista per il resto della notte.

E una strana scena ebbe luogo.

“Gli sputavano in viso e lo colpivano con dei pugni; altri gli bendarono gli
occhi e dopo averlo schiaffeggiato, gli chiedevano: ‘Cristo, fa’ il profeta e dicci
chi ti ha colpito adesso?'” (Mt 26, 67-68; Mc 14, 65).

Quindi, dopo la condanna, Gesù fu abbandonato ai soldati e agli uomini della
polizia, lasciandoli liberi di sfogare sulla sua persona ogni specie d’oltraggi che
avessero voluto. Più di un autore ha considerato quella notte crudele come
uno dei tormenti maggiori dell’intera Passione sofferta da Gesù Cristo. Una
cosa à certa: che dal punto di vista giuridico, vi fu una vera e propria scelleratezza.
In tutte le nazioni civili, un condannato, per quanto possa essere criminale, fino
al momento dell’esecuzione resta sotto la protezione della legge; e mai si è
visto dei giudici tollerare che da parte dei soldati e delle forze dell’ordine tali
e tanti eccessi rivoltanti contro non solo la giustizia, ma la natura e la stessa
ragione umana.

Essendo tale enormità compiuta al termine della seduta notturna, potremmo
aggiungere ulteriori irregolarità al numero di quelle di già registrate.
Ma vergogna, mille volte vergogna a Caifa che, tollerando che quell’abuso e quegli
eccessi si verificassero nella sua stessa casa, assunse sul proprio capo qualcosa
che superò le villanie compiute dai Filistei contro la persona di Sansone
(Gdc 16, 25). Come Sansone, che di Lui era stato figura, così il Cristo
venne circondato da gente che, facendosi beffe della sua disgrazia, si divertì
a sputargli in viso, facendolo oggetto di scherzi volgari. Si consentì che
chiunque lo potesse insultare, colpire, saziandosi degli obbrobri che poterono escogitare.
Ma in quelle ore si stavano compiendo delle altre profezie: “Non hanno avuto
vergogna di sputarmi in faccia”, aveva scritto Giobbe, riferendosi al Messia;
“mi han fatto mille oltraggi, mi han colpito vergognosamente, si sono – in una
parola – saziati dei miei tormenti!” (Gb 16,11; 30,10).

VIOLAZIONE
DA PARTE DEL SINEDRIO DI OGNI NORMA GIURIDICA

(Seduta del venerdi mattina)

“Dal mattino presto,
con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedríio dopo aver tenuto consiglio,
strinsero in catene Gesù, al fine di metterlo a morte, e lo consegnarono a
Pilato (Mc 15, 1; cf. Lc 22, 66; Mt 27, 1)”. Caifa e i
membri del sinedrio avevano ogni interesse a che l’illegale procedura notturna e
la condanna pronunziata contro Gesù non apparisse macchiata d’irregolarità.
Di irregolarità, come s’è visto, ne erano state commesse a non finire,
e era sempre possibile che dal popolo si levassero a un tratto voci di protesta:
quella riunione notturna, del tutto inusitata, i testimoni che si erano contraddetti,
quel giudizio precipitoso, ecc. D’altra parte, approfittando di una rinnovata confessione
dell’imputato si sarebbe potuto rinnovare con ogni solennità possibile la
sua condanna. Perciò l’intero sinedrio si radunò il mattino presto
per decidere contro Gesù, e mandarlo a morte.

Però, attenzione. Non si trattava di rivedere la sentenza pronunziata poche
ore prima. Gesù è condannato, irrevocabilmente condannato. Si tratta
unicamente di avviarlo a morte cercando di rispettare certe forme di giustizia e
un apparato legale che possa chiudere la bocca al popolo.

Resta solo da trovare una forma giuridica adatta; e vedremo che, rimanendo sempre
nella più ampia illegalità, si aggiungeranno nuove irregolarità
a quelle di già accumulatesi nella seduta notturna.

‘Fin dall’alba di quel gran giorno di festa, il sinedrio si riunì” (cf
Mc 15, 1; Lc 22, 66), e da questa riunione precipitosa scaturisce una
ventiduesima irregolarità. Infatti era vietato di incominciare una
riunione prima che avesse avuto termine il sacrificio del mattino: “Si raduneranno
dopo il sacrifico del mattino, fino all’ora in cui inizierà quello della sera”
(Talmud di Gerusalemme, trattato “Sanhédrin” cap. 1, 19).
Riunendosi fin dalle prime ore del giorno, i giudici non avevano atteso la fine del
primo sacrificio, dato che questo sacrificio iniziava precisamente all’alba di un
nuovo giorno (per fissare il tempo del sacrificio, la Bibbia si limita a parlare
di “mattino” e di “sera”: “Voi sacrificherete ogni giorno,
senza eccezioni, due agnelli di un anno, uno al mattino e l’altro la sera” (Es
29, 38-39). Ma lo storico Giuseppe Flavio fornisce particolari precisazioni: “La
Legge ordina che si immoli ogni giorno due agnelli d’un anno, quando comincia la
giornata, e quando essa termina”; “Antiq.” L. 3, c. 10, 1),
e occorreva almeno un’ora perché la vittima potesse dirsi immolata, scuoiata,
offerta e consumata tra le preghiere d’uso. Dunque era stato in un’ora indebita che
il sinedrio si era riunito.

E inoltre, era quel giorno la grande solennità di Pasqua, in cui ogni giudizio
era rigorosamente interdetto. Se infatti era stato vietato ogni processo di sabato
(“Non si giudicherà di sabato, né in altro giorno festivo”
– Mischna, trattato “Betza“, c. 5, 2), a più forte ragione
tale divieto valeva in un giorno tanto solenne qual’era quello della Pasqua. Perciò
ecco una ventitreesima irregolarità. Origene, uno dei più celebri
commentatori della Bibbia, riportando queste parole del Signore ai giudei contemporanei
d’Isaia: “Io detesto le vostre festività, non riesco a sopportarle”
(Is 1,14), aggiunge, con ragione, “Fu profeticamente che Dio fece dire
di aver in orrore le feste della Sinagoga, poiché, mettendo a morte Gesù
in giorno di Pasqua, i giudei hanno commesso un crimine” (“Comment.
in Joan.
“).

NUOVO
E SOMMARIO INTERROGATORIO DI GESÙ

“Lo condussero davanti
al sinedrio, e gli chiesero: ‘Se tu sei il Cristo, diccelo'” (Lc 22,
66).

Vale la pena ribadirlo di nuovo: il precedente sistema procedurale è stato
completamente abbandonato. Non ci si sforza di cercare e far venire avanti nuovi
testimoni; non si fa più conto di parole contro Gesù che egli non aveva
potuto pronunziare. Un tale modo di procedere si era rivelato inefficace la sera
avanti, e ormai il sinedrio si è reso conto che tornando su quella via non
potrà ottenere quel che si era proposto. Sa anche che Gesù non mentirà
mai né a se stesso, né ad altri, e che se gli fosse posta di nuovo
la stessa domanda, si potrà dalla sua risposta trovare conferma per la sentenza
di condanna.

“Gesù rispose loro: ‘Se ve lo dicessi, non mi credereste, e se vi interrogassi,
non potreste rispondermi. A ogni modo, d’ora in poi il Figlio dell’uomo si siederà
alla destra della potenza di Dio” (Lc 22, 67-69).

Da questa risposta Gesù fa chiaramente intendere ai giudici che essi non lo
interrogano spinti dal desiderio di conoscere la verità ma soltanto per trovarlo
in fallo, e ribadire la condanna. Tuttavia non tralascia di aggiungere: “Da
questa assemblea che ha congiurato ai miei danni e da questi legami che stringono
i miei polsi, io saprò liberarmi; e a dispetto di tutto quel che si potrebbe
escogitare contro di me, io andrò a sedermi sul trono dell’Onnipotente, alla
destra di Dio”.

“Allora gli chiesero tutti assieme: ‘Tu allora saresti il Figlio di Dio’? (Lc
22, 70).

La conclusione tratta dal sinedrio era di una rigorosa esattezza. L’espressione uscita
dalle labbra del Cristo – “sedersi alla destra di Dio”- non poteva convenire
a una semplice creatura. Perciò i giudici compresero perfettamente che dicendo
che lo avrebbero visto “seduto alla destra della potenza dell’Altissimo”,
Gesù si attribuiva il medesimo onore che appartiene a Dio, lo stesso potere,
la stessa maestà, e per conseguenza, la stessa natura di Dio.

“E Gesù rispose: ‘È come avete detto: io lo sono!'” (Lc
22, 70).

Gesù ripete le stesse parole e con identica solennità la confessione
che aveva rilasciato nella seduta notturna. All’interrogatorio di Caifa: “Sei
tu il Cristo, Figlio di Dio?”, egli aveva risposto: “Tu lo hai detto: lo
sono!”. E ora che il sinedrio gli chiede unanime: “Tu allora saresti il
Figlio di Dio?”, risponde: “Voi lo avete detto: io lo sono!”.

IL SINEDRIO
RINNOVA LA SENTENZA DELLA VIGILIA

“Ed essi ripeterono:
‘Che bisogno abbiamo di altre testimonianze? Lo abbiamo sentito dalla sua stessa
bocca!'” (Lc 22, 70-71).

In questo modo la seconda assemblea generale ha di che confermare la precedente sentenza.
Tutti i membri del sinedrio pronunziarono una identica sentenza di morte; e i giudici,
bramosi di passare all’esecuzione dell’imputato, dichiararono chiusa la seduta. Ogni
ulteriore esame, ogni indagine, per quanto minuziosa, sarà ormai inutile.

Il procedimento è chiuso, uomini del sinedrio, ma non l’accumularsi delle
vostre scorrettezze!

Siamo infatti a una ventiquattresima irregolarità poiché da
parte vostra, come pure vi era stata nella notte, ecco un’altra votazione in massa,
cosa assolutamente proibita dalla Legge: “Ciascuno, a suo turno, dovrà
esprimersi assolvendo o condannando” (Mischna, trattato “Sannédrin
c. 5, 5).

E un’ennesima irregolarità viene adesso ad aggiungersi alle altre, poiché
avevate l’obbligo di controllare con attenzione la risposta dell’accusato. Avendo
voi postagli la questione: “Sei tu il Figlio di Dio?” e avendo egli risposto:
“Sì, lo sono!”, voi avevate il dovere di sottomettere immediatamente
al più accurato esame le due proposizioni contenute nella risposta data dal
Cristo: 1) 1l Messia dev’essere Figlio di Dio?”, e 2) Gesù è Figlio
di Dio?”. Non avendolo fatto, voi avete compiuto una venticinquesima
irregolarità.

E anche una ventiseiesima, poiché voi avete pronunziato immediatamente
una sentenza che, in ogni caso, doveva essere differita. Quella infrazione giudiziaria,
già commessa nella vigilia, voi la ripetete questa mattina. Per dargli una
forma regolare, la sentenza avrebbe dovuto essere rimandata al sabato mattina. Il
processo, infatti, iniziatosi nella notte tra il giovedì e il venerdì,
faceva parte del giorno di venerdì, giacché è usanza degli ebrei
contare un giorno da un tramonto all’altro. Il primo giorno del processo andava dal
giovedì sera al venerdì sera. Orbene, essendovi l’obbligo (lo abbiamo
di già fatto notare) di lasciar trascorrere una notte d’intervallo tra la
fine di un dibattimento e l’enunciazione della sentenza […], ne seguiva che non
poteva essere né il giovedì sera, né il venerdì mattina,
né il venerdì sera, ma unicamente il sabato mattina che la sentenza
poteva essere regolarmente emessa.

Ma questa non è l’ultima delle irregolarità: ve n’è ancora un’altra:
la ventisettesima.

La decisione di condannare a morte Gesù è invalida poiché era
stata emessa in un locale proibito, nella casa cioè di Caífa, mentre
doveva essere pronunziata nella sala delle pietre squadrate, obbligatoriamente stabilita
per ogni giudizio criminale, sotto pena di nullità: “Non poteva esservi
condanna a morte se non quando il sinedrio sedeva nella sala prefissata, ossia nella
sala delle pietre squadrate” (Talmud di Babilonia, trattato “Abboda-Zara
o dell’idolatria”, c. 14).. Gli autori talmudici han ben compreso la gravità
di quest’ultima irregolarità se si sono sforzati di precisare in vari luoghi
che Gesù sarebbe stato condotto, giudicato e condannato nella “sala delle
pietre squadrate”, dove il sinedrio si sarebbe recato espressamente per compiere
quest’atto. Perciò si legge nelle “Thosephthot o Aggiunte”
del Talmud di Babilonia, (trattato “Sanhédrin” c. 4, 37, recto):
‘Va messo in chiaro che ogni volta che lo richiedesse una causa, il sinedrio tornava
nella sala Gazitk o delle pietre squadrate, come fu fatto nella causa contro Gesù
e altre simili”.

Però non è null’altro che una supposizione ridicola, immaginata sei
secoli più tardi, nel tentativo di discolparsi. La verità storica infatti
stabilita dal Vangelo e confermata dal rapporto di testimoni oculari assicura invece
che Gesù venne condotto, giudicato e condannato in casa di Caifa. E nessuno
potrà mai smentire o cancellare la breve ma perentoria espressione che l’apostolo
Giovanni usa: “Essi condussero Gesù dalla casa di Caifa al pretorio di
Pilato! ” (Gv 18, 26).

E dunque, la cosa è fatta: il Cristo è stato condannato! I sacerdoti,
gli scribi e gli anziani si precipitano dai propri posti; e mentre la vittima viene
legata, si lanciano correndo dove si trova Pilato per richiedere la ratifica della
sentenza e far eseguire la condanna (cf Mt 27, Mc 15, 1; 2; Lc
18, 1; Gv 18, 28).

Molte e commoventi cose si potrebbero porre in luce sulla colpevolezza della folla
che, istigata dai sacerdoti e dagli scribi, prese a reclamare quanto prima la morte
di Gesù. Ma oltre a essere oggetto di un altro scritto, dobbiamo far attenzione
a non uscire dal tema che ci siamo proposti, e cioè stigmatizzare il sinedrio,
un’assemblea di iniqui. È stato appunto il sinedrio che ha chiesto la comparizione
del Cristo, che lo ha giudicato e infine condannato. La casa di Caifa, in cui costui
ha presieduto la riunione, si è tramutata in un antro inquinato dalla più
assoluta mancanza di giustizia: le enormità che stanno per verificarsi nel
pretorio non ne saranno che le conseguenze. È perciò il sinedrio, di
cui abbiamo fin qui studiato con cura le persone e gli atti giudiziari, che dev’essere
valutato in maniera definitiva!












CONCLUSIONE


Lo scopo che ci siamo prefissi
nel prendere in esame il sinedrio che giudicò il Cristo ha un duplice aspetto:
esaminare dapprima i suoi membri, quindi il valore degli atti dibattuti.

Adesso che siamo giunti al termine di molte, (e a nostro avviso, possiamo aggiungere
leali e scrupolose) ricerche, cosa abbiamo ottenuto?

Nei membri che la componevano, questa corte d’assise che si chiama sinedrio ci si
è presentata come un coacervo di uomini per la maggior parte indegni delle
funzioni che erano chiamati a svolgere. Privi di pietà, di dirittura e di
valore morale: perfino gli storici della nostra stessa nazione li hanno bollati.

Nei loro atti giudiziari, – ossia nella loro maniera di procedere – abbiamo constatato
un numero impressionante di enormità, ben ventisette irregolarità,
delle quali sarebbe bastata una sola per rendere invalido il giudizio! Quelle irregolarità
le abbiamo individuate confrontando l’operato del sinedrio con il diritto penale
ebraico allora in vigore; e qualora lo commisurassimo con il più raffinato
diritto dei popoli moderni, ne scopriremmo chissà quante di più.

Nessun valore morale nei giudici, nessun valore giuridico nella loro sentenza; ecco,
israeliti, la valutazione che siamo costretti a emettere (e lo stesso farebbe qualunque
spirito sincero, qualsiasi coscienza onesta) dopo aver letto queste pagine.

Ebbene, lasciateci chiedere: dinanzi a simile spettacolo: non esiste per ogni ebreo
una ragione d’onore, diremmo di più, una ragione di giustizia che obbliga
a non ratificare il giudizio del sinedrio, prima d’aver esaminato personalmente chi
era in realtà il Cristo?

Di certo, egli non doveva essere un uomo ordinario: lo dimostra da sola l’inusitata
procedura che fu seguita nei suoi riguardi. Quando, in un processo, una irregolarità
viene a essere individuata, da sola non equivale a una giustificazione dell’imputato,
potendo trattarsi di una disattenzione o di un caso. Però se, nell’intera
trama di una procedura, da un capo all’altro di una seduta in tribunale, vedessimo
apparire e accavallarsi l’una all’altra ben ventisette irregolarità, tutte
gravi, tutte scandalose, tutte ostinatamente prodotte dagli attori, non è
questa una prova irrefragabile che l’accusato, vittima di simili maniere di procedere,
doveva essere una persona eccezionale?…

Dunque, chi poteva essere questo eccezionale accusato?…

Il giorno in cui egli fece l’ingresso trionfale (ne mancavano cinque al processo),
dei giudei venuti da lontano per partecipare alle feste di Pasqua, provenienti dal
paese dei Parti, dalla Media, dalla Persia, dalla Mesopotamia, dal Ponto, dalla Frigia,
da ogni località dell’Asia, dai confini della Libia, della Cirenaica, da Creta,
dall’Egitto, dall’Arabia e da Roma, questi giudei, davanti allo spettacolo del suo
trionfo e all’entusiasmo popolare, si chiedevano, ciascuno nella propria lingua:
Quis est hic: chi è mai costui?” (Mt 21, 10).

Tale questione, israeliti, lo spettacolo dell’ingiustizia [di cui il Cristo sarà
presto vittima], più ancora che quello del trionfo, vi pone innanzi oggi una
precisa domanda

“Chi è costui?”, nei cui riguardi il sinedrio ha violato ogni forma
di giustizia…

“Chi è costui?”, che non ha opposto altro che dolcezza alla violenza
e ai soprusi dei propri giudici…

“Chi è costui?”, che ha bevuto l’amara acqua del torrente Cedron
come Davide, ed è stato venduto come Giuseppe…

A diciannove secoli di distanza e quando gli animi si sono placati, è una
questione che ogni ebreo leale, tenendo nelle mani la Bibbia, può agevolmente
risolvere.

Quanto a noi, vostri fratelli nella carne, dopo vent’anni di studi oggi sappiamo
chi egli sia; e non ci torna mai alla memoria e agli occhi una pagina ispirata della
Bibbia, che ci permetterete di collocare davanti ai vostri sguardi. Meditatela, quella
pagina, o israeliti; essa vi rivelerà chi fu in realtà il condannato
dal sinedrio, mentre vi aiuterà a conoscere quale dev’essere, qui in terra
l’ultimo atto del popolo giudaico prima di entrare con le sue tribù e le sue
famiglie nella terra promessa della Chiesa, e più tardi nella terra promessa
dell’eternità.

Ed ecco finalmente la pagina cui abbiamo fatto cenno, del profeta Zaccaria: “In
quel giorno il Signore proteggerà gli abitanti di Gerusalemme; il più
debole di loro diverrà come Davide medesimo e la casa di Davide come Dio.
Effonderò sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme uno spirito
di grazia e di implorazione: essi si volgeranno a me che hanno trafitto. E piangeranno
su di lui come si piange per un figlio unico; faranno per lui amaro cordoglio quale
si fa per un primogenito. In quel giorno si leverà un gran pianto in Gerusalemme
[…]. Il paese sarà in pianto, clan per clan: il clan della casa di Davide
da sé e le loro mogli da sé; a clan della casa di Natan da sé
e le loro mogli da sé; il clan della casa di Levi da sé e le loro mogli
da sé; il clan della casa di Simei e le loro mogli da sé: Così
tutti gli altri clan: ogni clan da sé e le loro mogli da sé […] E
se qualcuno gli domanderà: ‘Che sono quelle cicatrici sopra le tue mani?’,
egli risponderà: ‘Quelle che ho ricevute in casa dei miei amici'” (Zc
12, 8-14; 13, 6-9).

Davanti a questa descrizione, davanti a questo dialogo e alle piaghe di quelle mani
e di quei piedi, chi di voialtri, Israeliti, non riconoscerà, se agisce in
buona fede e se la grazia si degnerà di aiutarlo, l’Uomo-Dio condannato dal
sinedrio? Poiché le Scritture vi dicono il suo nome: era il Messia, il Signore!
I nostri padri, purtroppo, non lo riconobbero. Ma i loro figli un giorno lo potranno
riconoscere; ognuno di essi dirà: “Signor mio e Dio mio! ” E, nel
riconoscerlo, gli chiederanno che conceda loro di poter contemplare ancora le piaghe
delle mani e dei piedi; e su quelle piaghe lasceranno scorrere torrenti di lacrime.
E la terra intera si commuoverà a quello spettacolo; tutti gli uomini si uniranno
al pianto, “famiglia per famiglia”.

Quel giorno meraviglioso per il commosso riconoscimento, a noialtri che scriviamo
queste righe non sarà concesso di vederlo qui in terra: l’avremo abbandonata
da molto tempo. Ma, dall’alto del cielo, dove Dio, così speriamo, ci farà
la grazia di riceverci, ci uniremo al nostro popolo convertito e pentito. In cielo
non vi sono lacrime: per questo motivo vi chiederemo in prestito un poco delle vostre,
per offrire al Signore le lacrime della casa di Davide, della casa di Natan, della
casa di Levi, della casa di Simei, quando finalmente albeggi il giorno di quel collettivo
singhiozzare (“cosa sono quelle ferite che hai sulle mani?”); in quel giorno,
sì, ricordatevi di questi due figli di Israele, sacerdoti di Gesù Cristo,
che scrissero queste pagine. E in cambio delle ore che abbiamo dedicato a questo
lavoro, versate in omaggio qualcuna delle vostre lacrime! Versatele nel suo nome!


PER CHRISTUM ET CUM
CHRISTO

PAX SUPER ISRAEL







testo tratto da: Agostino
e Giuseppe Lémann, L’assembea che condannò il Messia, Firenze: LEF,
pp. 17 e 98-130.