«In Corde Jesu» (2ª parte)

«In Corde Jesu»

La devozione al Sacro Cuore di Gesù

di P. Louis Mendizabal S.J.

(II parte)

CAPITOLO VI

LA CONSACRAZIONE


«Con la consacrazione offriamo al Cuore di Gesù
noi e tutte le cose nostre, riconoscendole ricevute dalla eterna carità di
Dio» (Miserentissimus).

Convinti che Cristo ci ama e che con la sua azione e volontà ci parla continuamente
di un dialogo d’amore, la nostra posizione di persone ragionevoli sarà di
riconoscere questo amore, ascoltare ciò che Egli ci dice e quindi cogliere
ogni occasione per ripagare il Suo amore per noi.

È perciò necessario considerare Gesù Cristo non come una cosa,
ma come una Persona vivente. Sull’altare non sta un corpo inerme, ma un Uomo in carne
ed ossa e al tempo stesso Dio. Dobbiamo trattarlo come una Persona viva; così
la nostra vita religiosa assumerà un aspetto più personale.

Il nostro amore a Gesù Cristo deve continuare ad ardere durante le occupazioni
della giornata. Guardando ogni avvenimento ed ogni cosa in relazione a Gesù
Cristo e studiandoci di mostrarGli il nostro amore ogni volta che ci è possibile.

Così daremo alla nostra vita spirituale un aspetto fortemente cristocentrico.
Vogliamo un esempio? La devozione alle anime del Purgatorio sarà cristocentrica
quando noi, per far piacere a Cristo, che ama queste anime e desidera che entrino
nella gloria per poterle abbracciare, offriamo le nostre sofferenze; penitenze, suffragi
e indulgenze a loro vantaggio, e nello stesso tempo vorremmo ripagarlo, con l’avvicinare
un’anima a Lui, di tutte le nostre infedeltà con le quali ci siamo da Lui
allontanati.

In modo simile possiamo agire riguardo al prossimo, ai superiori, ai sacerdoti…
offrendo ciò che è nostro a Cristo in cambio dei Suoi doni e del Suo
amore.

Vi e ancora di più: «Questa è la volontà di Dio, la santificazione
vostra» (1 Tess. 4, 3). la santità non consiste nella mortificazione,
nella orazione, nella privazione del divertimento e del cinema e nell’evitare il
peccato. In pratica racchiuderà la maggior parte di questi elementi; ma non
consiste in nessuno di essi e nemmeno nella loro somma.

La santità è la conformità della nostra volontà con la
Volontà di Dio. «La santità consiste nella trasformazione della
volontà propria nella pura volontà di Dio» (S. Giovanni della
Croce).

A Loyola, sopra l’altare della conversione è scritto: Qui si consacrò
a Dio Ignazio.

Ignazio, un buon ufficiale cristiano del suo tempo, aveva fatto i suoi piani per
il futuro, piani non peccaminosi; potranno essere stati mondani e frivoli, ma non
erano peccato. Colpito ad una gamba, costretto all’immobilità, legge, dato
che non gli si può procurare altro, una vita di Cristo. Durante quelle giornate
di grazia, Ignazio si convince che Cristo è una Persona vivente, che ha una
parte nella sua vita. Allora rinuncia ai suoi disegni e si mette a completa disposizione
di Gesù. Come Saulo sulla via di Damasco si trovò faccia a faccia con
Gesù Cristo vivo, che è lo stesso di ieri, di oggi e di sempre, ed
esclamò: «Signore, che vuoi che io faccia?».

Ecco la santità: la rinuncia ai propri disegni, perfino ai propri ideali di
santità, perché si realizzino in noi quelli di Cristo. Gesù,
infatti, ha attualmente i Suoi piani su di noi e noi non ne concepiamo nemmeno lontanamente
la grandezza, né quello che ci è di ostacolo, perché possano
divenire realtà.

I nostri piani ostacolano i Suoi. Il più piccolo affetto disordinato nutrito
in cuore è un grande impedimento alla nostra consacrazione a Gesù Cristo.

Non è facile, ma dobbiamo studiare di fare il possibile, con la grazia dello
Spirito Santo: «Veni sanctificator, omnipotens, aeterne Deus et benedic hoc
sacrificium tuo sancto nomini praeparatum»:

«Molti pregano, si mortificano, lavorano, ricevono i Sacramenti, praticano
le opere di misericordia; pochi si consacrano totalmente a Dio Nostro Signore. Interiormente
non rinunciano a se stessi» (Ginhac).

Consacrazione è mettersi totalmente a disposizione di Cristo: atto serio e
ben meditato.

Come il calice unto e consacrato dal Vescovo servirà solo per il servizio
dell’altare, tanto che il farlo servire ad un altro uso è sacrilegio; in modo
simile la persona che si consacra all’amore di Gesù deve dedicarsi ormai per
sempre all’ufficio di compiere la sua Volontà.

Con piena avvertenza dell’atto che si compie bisogna presentarsi al Signore e con
tutto il cuore abbandonare la propria persona, il corpo e l’anima, nelle Sue mani:
«Offriamo noi stessi e le nostre cose» (Miserentissimus).

Con quest’atto prendiamo tutta la nostra vita passata, noi come siamo a causa del
nostro passato, la vita del momento attuale per offrirla a Cristo, decisi a dirigere
il nostro futuro a seconda delle disposizioni della nostra offerta attuale.

L’anima ed il corpo sono a disposizione di Cristo per sempre: «Sono Vostro,
per Voi sono nato, che volete fare di me?»

Tutto dipende dal nostro «sì». E dobbiamo (per generosità
e per gratitudine) rispondere questo «sì» totale.

Con la maggior fiducia offriamo il nostro corpo e l’anima nostra così come
sono: con le nostre mancanze e i peccati passati, che Gesù Cristo non ci rinfaccerà
mai.

Pochi anni fa viveva una donna, delegata comunista del suo quartiere. Venne un nuovo
parroco che si interessava molto degli operai e che predicava fervorosamente la Via
Crucis ogni venerdì. Molti si riavvicinarono alla Chiesa e si convertirono.
Solo quella donna non si faceva mai vedere in Chiesa. Un giorno, però, mentre
stava lavando vicino alla Chiesa udì le fervorose parole del parroco. Fu toccata
dalla grazia e si convertì

Dopo qualche settimana al parroco si guastò la macchina da scrivere e pensò
che gliela avrebbero potuta aggiustare le figlie di quella donna, che lavoravano
in una fabbrica di macchine da scrivere. Portò allora la macchina a casa della
ex comunista che gli disse: «Con piacere, ma dovrà attendere la settimana
prossima, perché sono molto occupate ed ora non hanno tempo».

Il parroco le lasciò la macchina e tornò a casa. Nemmeno un’ora dopo
la ex comunista tornò con la propria macchina da scrivere e, dandola al Parroco,
gli disse semplicemente: «Padre, lei ha bisogno di una macchina. Guardi, io
con questo ho commesso molti peccati; vorrei che lei adesso la santificasse con le
sue mani sacerdotali…»

Ecco un mettere in pratica le parole di San Paolo: «Come offriste le vostre
membra schiave all’impurità e all’iniquità per la iniquità,
così ora offrite le vostre membra schiave alla giustizia per la santificazione»
(Rm. 6, 19).

Noi dobbiamo fare la stessa cosa; anche se abbiamo commesso tanti peccati con il
corpo, con gli occhi, con le mani, con l’immaginazione, non importa. Prendiamo il
corpo e l’anima ed offriamoli a Gesù affinché li santifichi con le
Sue mani, affinché scriva col nostro corpo ed anima il messaggio che desidera
far conoscere al mondo, l’annuncio di pace e d’amore.

Questo messaggio non consiste in parole, ma in opere, dobbiamo essere rappresentanti
veri di Cristo; anzi, non solamente rappresentanti, ma portatori viventi di Cristo,
affinché Egli trasparisca in noi ed illumini il mondo servendosi di noi.

Consacrazione a Dio significa togliere gli ostacoli che impediscono a Dio di donarsi
a noi.

Cristo: «Dio con noi». La nostra dedizione a Lui non è solo un
semplice atto ascetico. Come si offre il pane alla Messa, perché si trasformi
in Cristo, in modo analogo nell’atto della consacrazione, doniamo noi stessi per
trasformarci in Lui e possedere la vera vita.

Cristo prende possesso di noi, ci trasforma sempre più in Lui; di conseguenza
agiremo secondo ciò che siamo e quindi saremo i suoi rappresentanti perché
Lo portiamo in noi.

Maria era una giovanetta di dodici anni, che aveva perduto la mamma ed a cui era
rimasto un fratellino di due mesi.

Curò tanto il bambino che questi poté vivere e crescere. Giunto alla
età di cinque anni, un giorno, dai discorsi dei compagni, Si accorse che egli
non aveva mamma ed allora corse dalla sorella:

«Maria – le disse – i miei compagni hanno tutti la
mamma; ed io non ho una mamma?»

«Certamente, anche tu hai la mamma. È in cielo…»

«È buona la mia mamma?»

«Molto, molto buona».

«Più buona di te?»

«Molto più di me!» rispose singhiozzando Maria.

«Allora vorrei andare in Cielo per vederla! Se è più buona di
te, chissà come sarà!»

Questo dovrebbe potersi analogamente dire di ogni cristiano.

«Ho un Padre in Cielo? È migliore di te? Oh, quanto desidero vedere
Gesù! Infatti, se è più buono di te, deve essere buono davvero!
»

È lo stesso desiderio espresso nella giaculatoria: «Fa’ che, chi mi
guarda, ti veda».

Ma questo desiderio può divenire realtà solamente
se Cristo ci possiede interamente. Non si tratta di imitare le apparenze esterne,
non è una commedia. Se Egli è in noi la Sua presenza trasparirà
involontariamente all’esterno; nelle più piccole azioni, negli atteggiamenti,
nel modo di fare, nel tono della voce si manifesterà che Egli vive in noi.

Le nostre azioni più insignificanti rivelano immediatamente se nell’anima
vi è la purezza, se regna Gesù Cristo.

Donarsi totalmente non è una cosa facile e non è possibile ottenerla
subito.

Anche se aspiriamo a sentire in noi i sentimenti di Gesù, inciamperemo nel
nostro «io», che non è morto del tutto.

In noi vi sono due persone. Vediamolo plasticamente nel fatto accaduto alla santa
madre di un sacerdote. La madre, ormai anziana, rifiutò decisamente: «Figlio
mio, io sono vecchia e morrò presto; rimani con me. Quando sarò morta,
farai quello che desideri».

Il giorno dopo la madre andò a Messa e si comunicò come al solito.
Più tardi, rivedendo il figlio, gli disse: «Figlio mio, ieri ha parlato
la madre; oggi parla la cristiana: fatti religioso come ti pare; se vuoi anche Oggi
» .

Così anche noi dovremmo raddrizzare le prime reazioni della natura; dobbiamo
avere la forza di mostrarle al Cuore di Gesù e vincerci dicendo: «Prima
ha parlato l’uomo terreno; ora quello consacrato a Cristo».

È la battaglia della nostra vita di consacrazione, vita difficile, senza dubbio;
ma confidiamo nel Signore e chiediamogli la grazia di poterci donare totalmente a
Lui.

Questo è l’unico modo per poter fare un apostolato vero nel mondo: Egli è
infatti la Luce, la Verità, la Vita.

Studiamoci di scomparire per far posto a Lui, che non desidera altro che averci a
Sua disposizione.

Egli può fare dei miracoli, come fa nell’Eucarestia, in cui non ha bisogno
di molto pane, ma solo di un pezzetto. Bisogna però che questo pezzetto perda
la sua sostanza per potersi trasformare.

A noi non è richiesto di perdere né la personalità, né
la sostanza, ma la nostra volontà, perché Gesù Cristo possa
fare di noi quello che vuole.

Allora, avendoci uniti sempre più a Lui e trasformati dalla grazia, potrà
fare per nostro mezzo dei miracoli. Il Signore che «non cercò di piacere
a se stesso» (Rm. 15, 3) ci insegnerà Egli stesso il modo di consacrarsi
a Lui: «Signore, rendimi trasparente come un cristallo, affinché la
tua luce possa trasparire attraverso me».

CAPITOLO VII

LA RIPARAZIONE

1 – Riparazione negativa

Visto che cos’è il peccato, è naturale che
ci si sforzi d’evitarlo nelle conseguenze e nelle sue cause.

Prima di tutto occorre evitare quello che dipende dalla propria volontà: il
peccato personale. È questo il primo passo, prima della consacrazione: come
il Confiteor precede l’Offertorio.

Dopo, la lotta al peccato continuerà, perché sappiamo che nessuno,
tranne che per un privilegio speciale, può evitare tutti i peccati veniali.
Dobbiamo dunque tenerne conto.

Ma come dobbiamo comportarci una volta commesso un peccato veniale, o, Dio non lo
permetta, mortale?

Se Dio, a causa delle nostre infedeltà, permettesse un così brutto
momento, occorre:

Non spaventarsi: se ci
conosciamo anche poco. Perché meravigliarsi delle cadute? Da noi che possiamo
fare? Nemmeno il confessore si meraviglierà…

Confidare: Cristo ci ama
anche se abbiamo peccato. Il dolore e il desiderio di tornare in grazia, che cosa
sono se non effetti della misericordia di Dio? Egli stesso che ha intrapreso l’opera,
la condurrà a termine. Ricordate il peccato di S. Pietro e la reazione di
Gesù?

«Liberaci, o Signore, dal diffidare della Tua misericordia, dopo un brutto
momento». Così il nostro peccato ci renderà più umili
e più cauti, più riconoscenti a Gesù Cristo, che, per quanto
offeso, non si stanca mai di perdonare. Ci stancheremo prima noi di offenderlo.

«O pazienza infinita in aspettarmi o cuore mio duro in non amarVi Sono io stanco
a furia d’ingiuriarVi e non lo siete Voi di perdonarmi!».

RingraziarLo di aver permesso questa mancanza o quel peccato, in quanto può
volgersi a nostro bene e rallegrarci della umiliazione.

«Tutto coopera al bene, per chi ama Dio, anche il peccato già commesso…
Si rialzano con più grazia… L’uomo, più è cauto ed umile,
più stabilmente si mantiene in grazia…» (S.Th. III, q. 89, a. 2, ad.
1).

Domandare umilmente perdono

Considerando, poi, i peccati simili di altri cattolici,
il nostro dolore deve crescere e deve sorgere il desiderio di riparare in qualche
modo.

Teniamo, però, presente che il dolore, il pentimento e la stessa confessione
non sopprimono sempre del tutto gli effetti del peccato. Questi, pur non essendo
in se stessi peccato, ci attirano verso di esso. La nostra volontà viene indebolita
e, col perdurare, aumentano l’abitudine al peccato.

E poiché al peccato segue il dolore della soddisfazione anche con pene dolorose,
se detestiamo veramente il peccato dobbiamo combatterne le molteplici radici.

Ecco la teologia dell’uomo caduto in peccato: Tutto ciò che può essere
utile a fortificare la debolezza della volontà, a distruggere le cattive abitudini
prodotte dal peccato, a domare la concupiscenza, a diminuire le pene dovute al peccato,
tutto ciò costituisce la parte negativa della riparazione.

Dovremmo cercare di compiere con spirito di riparazione e con l’intenzione di purificarci
sempre più, ciò che spesso facciamo quasi per abitudine: la Confessione,
le penitenze, l’uso dei Sacramentali (come il prendere l’acqua benedetta), le umiliazioni
e mortificazioni dei sensi che ci capitano.

Sarà questo un mezzo per unirci sempre più intimamente a Cristo; e
la nostra consacrazione e la nostra offerta saranno molto gradite al suo Cuore.

Non contenti del minimo grado di purezza seguendo l’esempio della umile madre di
Dio, procureremo di accrescere la nostra purificazione.

2 – Riparazione affettiva

Può definirsi così un amore che desidera consolare
Cristo offeso da tanti peccati, affinché Egli, distogliendo lo sguardo dalle
nostre e altrui mancanze, guardi solamente al nostro amore ed alle nostre buone azioni.
Questa riparazione affettiva può permeare tutta la vita, la propria fedeltà
ai comandamenti, ai propri doveri, alla preghiera.

La stessa consacrazione, intesa nel senso di soddisfazione dei peccati passati, è
già riparazione affettiva.

Per questa intenzione ogni azione, anche la più ordinaria, della nostra vita
sarà ispirata dall’amore, e di conseguenza più perfetta e di maggiore
consolazione per Cristo; sarà più efficace per meritare grazie. Sarà,
inoltre, un incentivo psicologico per la nostra perfezione.

Un negro desiderava essere sacerdote, ma il missionario non lo poteva ammettere in
Seminario, perché non vi erano fondi e il negro non aveva denaro per mantenersi
durante gli studi.

Il negro lasciò allora la Missione, improvvisamente, dirigendosi verso il
sud. L’anno dopo si presentò di nuovo al missionario e, pieno di gioia, mostrandogli
una certa quantità di monete d’oro, gli disse: «Il lavoro in miniera
è stato duro, ma adesso ho il denaro. Posso entrare in Seminario?».

«Certamente» gli rispose il Padre, ammirato del suo eroismo.

Tre mesi dopo il negro doveva lasciare il Seminario. Il lavoro alla miniera era stato
eccessivo. La TBC stava distruggendo il petto di quell’eroe.

Il malato chiamò il missionario, gli diede tutto il suo denaro, dicendo: «Io
non posso più diventare Sacerdote, ma se qualche altro che lo vuole non ne
possedesse i mezzi: ecco il denaro per lui».

Egli poi tornò alla miniera per guadagnare la retta ad un altro seminarista
povero.

Mentre sentiva avvicinarsi la morte, la sua preghiera era questa «Signore,
aspetta ancora un mese ed avrai un altro Sacerdote!».

Con simile delicatezza d’amore dovremmo impegnarci nella riparazione. Se noi abbiamo
perduto la nostra innocenza, possiamo, però, come compenso affettivo, dirigere
tutti i nostri sforzi, affinché un’altra anima la conservi intatta.

A questo scopo tutto possiamo dirigere. Questa riparazione affettiva aprirà
infatti il nostro cuore al più delicato e generoso servizio del Signore.

Ma, in modo speciale, riparazioni affettive sono la preghiera, la Comunione, la S.
Messa.

La riparazione affettiva consiste nell’amare Cristo afflitto da tanti oltraggi ed
è naturale che a ciò serva di preferenza quanto è stato istituito
precisamente per fomentare in noi l’amore. L’orazione che ripara è l’orazione
affettiva attraverso atti di fede, di speranza, d’amore, ecc.

È l’orazione descritta da S. Giovanni della croce: «Dimenticanza di
tutte le cose create; ricordo del Creatore; attenzione all’interiore; starsene amando
l’Amato»; E ricordiamo che «un atto di puro amore vale più per
la Chiesa delle azioni esterne di tutti i predicatori…» (S. Giovanni della
Croce).

La Comunione è il sacramento dell’amore. È Cristo che desidera unirsi
a noi e fortificarci.

Cristo, dimenticato nel Suo sacramento d’amore, dev’essere il motivo che c’induca
a ferventi Comunioni per unirsi a Lui. Per questo la Comunione riparatrice ha un
posto così importante nei principi della devozione al Sacro Cuore.

Altro aspetto della riparazione affettiva è l’offerta al Padre, delle virtù
del Sacro Cuore contrarie ai peccati che si vogliono riparare. Non dimentichiamo
che Cristo ci è stato dato come un tesoro; possiamo disporne sempre nel nostro
dirigerci al Padre.

Quando sentiamo che il nostro amore è troppo freddo, che la nostra purezza
è troppo macchiata perché siano una gradita riparazione, non temiamo
di offrire l’amore e la purezza del Sacro Cuore in compenso. Il modo migliore poi
di effettuare quest’offerta è precisamente la Santa Messa, in quanto è
un offerta affettiva della Sacra Vittima

3 – Riparazione afflittiva

La sofferenza è uno dei misteri più difficili
della vita spirituale. È il problema costante degli uomini oppressi da pesanti
croci.

Nella Chiesa ogni anno si celebra la festa della esaltazione della Croce. Ognuno
di noi dovrebbe però celebrare intimamente come una grande festa l’anniversario
del giorno in cui ha scoperto il valore della propria croce.

Non ci mancano sofferenze e pene, ma non è facile scoprirne il valore. Sappiamo
che la vittoria sta nella Croce, malgrado ciò la frase di San Paolo rimane
per noi dura: «Infatti mi proposi di non saper altro in mezzo a voi, se non
Gesù Cristo e Gesù Cristo Crocifisso» (1 Cor. 2, 2).

Cristo con la Sua croce vince il mondo, perciò non dobbiamo meravigliarci
che istintivamente il mondo odii la Croce.

Se talvolta il mondo dona delle croci, è più per l’oro e i gioielli,
che per la Croce.

Il mondo infatti non può capire la Croce. «Scandalo per i Giudei, follia
per i pagani» (1 Cor. 1, 23). Il mondo cerca di tenere i suoi seguaci lontani
dalla Croce e molti periscono senza che la Croce sia giunta sino a loro.

Noi dobbiamo invece essere crocifissi viventi, portatori della Croce in noi stessi,
in modo che la Croce si manifesti in noi.

Un giorno, al Catechismo, si presentò un bambino che il catechista non conosceva.
Dopo il Catechismo lo salutò affettuosamente e gli propose di parlare con
suo padre per prepararlo alla Prima Comunione.

«Per favore, non parli di questo a mio padre che è comunista e molte
volte mi ha detto che, se vede un Sacerdote in casa, lo ammazza».

Allora il catechista, parlò con la nonna e prepararono tutto segretamente.
Dopo qualche settimana ci fu la Prima Comunione.

Poco dopo la nonna andò in cerca del catechista. «Il piccolo è
malato gravemente, ma mio figlio non permette che venga un sacerdote; non vuol vedere
croci e non permetterà nemmeno un funerale cattolico».

Tre giorni dopo la nonna si presentò di nuovo: «Il piccolo è
morto questa mattina, venga, il funerale cattolico si farà». E gli spiegò
come il padre del bambino fosse cambiato. «Quando il bambino stava molto male,
mio figlio era sempre al suo capezzale. Improvvisamente il piccolo spalancò
gli occhi ed esclamò: «Papà guarda!» Egli si chinò
sul letto. Quell’angioletto fece su di sé, adagio e maestosamente, il segno
della Croce, poi è spirato. Mio figlio si alzò lentamente e con le
lacrime agli occhi mi ha detto «Mamma fai venire il Sacerdote, in quel segno
di Croce… c’è tutto». Quel comunista odiava la Croce, che non conosceva,
fino al giorno in cui la vide viva nel suo figlioletto.

Nostro compito, è quello di portare in noi la Croce vivente di Cristo, per
mostrarla a tutti; portarla sempre con noi in qualsiasi luogo, senza mai dimenticarcene,
perché in qualunque parte possiamo aver bisogno di farla conoscere.

Primo Grado: «L’espiazione
stimola l’unione con Cristo cancellando le colpe» (Miserentissimus).

Oggetto della riparazione afflittiva sono le sofferenze
fisiche e spirituali, anche quelle inflitte da noi stessi a noi stessi volontariamente
(mortificazioni Ñ penitenze). Nel Conc. Tridentino è chiaramente espresso
questo fine delle penitenze in quanto soddisfazioni di peccati passati, ed è
anche indicato che possiamo soddisfare per i nostri peccati per mezzo delle sofferenze
che Dio ci invia.

La croce (penitenza e sofferenze) in questo primo grado è purificazione che
tende a rendere perfetta la nostra consacrazione al Divin Cuore. Non possiamo infatti
ottenere un’intima unione con Cristo se non distruggiamo totalmente il peccato in
noi, anche nelle sue conseguenze penali.

Se l’unione gloriosa fosse possibile senza scontare il castigo, non sarebbe forse
necessario rimanere un tempo in Purgatorio privi della visione di Dio. Se consideriamo
dunque il peccato ed il castigo da esso meritato, non Ci sembrerà eccessiva
riparazione nessuna sofferenza.

«Per uno stretto titolo di giustizia… siamo obbligati a riparare ed espiare,
sia per l’offesa arrecata a Dio, per le nostre colpe, sia per il ristabilimento dell’ordine
violato Peccatori quali siamo, carichi di colpe dobbiamo soddisfare Dio, giustissimo
Giudice, per i nostri innumerevoli peccati, offese e negligenze… «Quindi
alla consacrazione deve unirsi l’espiazione, con cui si pagano totalmente i peccati,
affinché la santità della divina Giustizia non respinga la nostra impudente
indegnità e ricusi le nostre offerte essendogli ingrate, invece di accettarle
come cosa gradita (Miserentissimus).

Secondo Grado: «L’espiazione
perfeziona l’unione con Cristo partecipando alle Sue sofferenze» (Miserentissimus).

In questo caso espiazione è sinonimo di sofferenza.

Quindi la nostra sofferenza significa imitazione di Cristo. Ma, a mano a mano che
un’anima avanza in questo cammino, l’idea di essere sempre più simile a Cristo
s’impossessa lentamente di lei. Imitazione che l’amore esige. Tutte le vite dei Santi
ci presentano simili tratti.

Molti oggigiorno credono di sentire l’ardente zelo di un San Francesco Saverio e
desiderano come Lui compiere un’attività instancabile; pochi però si
accorgono che il Saverio era un uomo che soffriva molto nella sua vita mistica d’orazione.
Egli formava i suoi figlioli nella fede, con questo spirito solido. Ad Amboino il
Saverio battezzò un gruppo di Cristiani ed uno di essi era il giovane Manuel
di Ihative, figlio di un capo dell’isola. In seguito alle persecuzioni per molti
anni i cristiani di Amboino rimasero senza missionari. Vennero i mussulmani che cercarono
con ogni mezzo di guadagnarli a Maometto, non risparmiando nemmeno i tormenti; ma
la maggior parte rimasero fedeli. Quando dopo molti anni tornarono i missionari cattolici,
furono colpiti da così eroica fedeltà e domandarono a Manuel di Ihative:
«Che cos’è che vi ha dato la forza di resistere a così grandi
persecuzioni?». E Manuel rispose: «Conosco poco la nostra religione,
ma una cosa che Egli mi ripeteva sempre: ossia che è bello soffrire per Cristo».

Ma non deve essere solo per amore e per imitare Cristo, morto per me duemila anni
fa, che devo accettare con piacere le sofferenze. Abbiamo visto che Cristo soffre
attualmente nel Suo Corpo Mistico. Come posso io quindi trascorrere contento una
vita piacevole?

«Siamo obbligati per un motivo d’amore a patire per Cristo paziente e saturato
d’obbrobri e secondo la nostra povertà qualche consolazione…» «…Giustamente,
però, Gesù Cristo sofferente nel Suo Corpo Mistico desidera avere soci
nella espiazione, poiché essendo noi «il Corpo di Cristo e membra congiunte»
è necessario che anche le membra soffrano ciò che soffre il Capo».
(Miserentissimus).

Terzo Grado: «L’espiazione
consuma la nostra unione con Cristo offrendo sacrifici per i fratelli» (Miserentissimus).

Abbiamo visto che non siamo soli nella Chiesa; la nostra santità è
unita a quella di moltissimi altri. Offriamo quindi la nostra riparazione, prima
per quelli che sono stati danneggiati da noi spiritualmente. Questi danni, infatti,
sono effetti dei miei personali peccati nella Chiesa e, a maggior ragione, se essi
furono di scandalo o di cooperazione. I peccati commessi per mia causa e che macchiarono
il Corpo Mistico di Cristo, sono realmente miei e devo cercare di espiarli.

Anche i miei peccati più segreti causano un grave danno al Corpo Mistico di
Cristo e per curare queste ferite da me fatte, devo offrire i miei dolori e la mia
espiazione.

Riparare, poi, per i peccati delle «mie anime». Dal momento che vi è
una vera unione tra noi, questi peccati altrui sono, in certo qual modo reale, i
miei. Ciò non vuol dire che io debba essere castigato per i peccati degli
altri, ma significa che, se voglio, posso offrire una vera espiazione per essi. Di
conseguenza non solo posso pregare per loro, ma offrire penitenze e dolori, come
vera espiazione.

Necessità di questa riparazione

Vi sono argomenti per credere che nella attuale economia,
normalmente, nessuna anima si converte senza le sofferenze di un’altra. È
vero il principio di S. Paolo: «Senza spargimento di sangue non si dà
perdono» (Eb. 9, 22). Per cui: «Completo nella mia carne quel che manca
delle sofferenze di Cristo a pro del Corpo Suo che è la Chiesa» (Col
1, 24).

«È necessario il nostro sacrificio, per quanto la copiosa redenzione
di Cristo sovrabbondantemente perdonò i nostri peccati… Alle orazioni ed
ai sacrifici che Cristo offrì a Dio in nome dei peccatori, possiamo e dobbiamo
aggiungere anche le nostre» (Miserentissimus).

Impressionante anche se esagerata, è a questo proposito la frase di Origene
(In. Num. 10, 2. MG. 12, 638 C.): «da quando non vi sono più martiri
e non vengono offerte le ostie dei Santi, temo che non possiamo più meritare
la remissione dei nostri peccati. Per questo ho paura che, permanendo in noi i nostri
peccati, ci accada quanto di se stessi affermano i Giudei, ossia che, privi d’altare,
di tempio e di sacerdozio e quindi non offrendo più ostie,Ñsecondo
la loro espressioneÑ «i nostri peccati restano in noi»; e perciò
non si dà perdono. Da parte nostra dobbiamo dire che non offrendosi per noi
le ostie dei martiri, per questo ci rimangono i nostri peccati; non meritiamo di
soffrire persecuzioni per Cristo, né di morire per il nome del Figlio di Dio».

Conosciamo la redenzione oggettiva e la sua applicazione. Lasciamo però da
parte la terminologia e spieghiamo la realtà con un esempio.

Le soddisfazioni di Cristo sono come un grande deposito, o come una centrale in cui
è accumulata la potenza elettrica che deve essere usata per la salvezza delle
anime. Questa salvezza però non si applica ai motori, in modo che possano
trasformarla in lavoro.

Nell’ordine soprannaturale i motori sono le nostre riparazioni e i nostri sacrifici.

L’orazione possiamo immaginarcela come le condutture che portano l’energia elettrica
ai motori. Ma, senza i motori, senza il sacrificio espiatorio, non possiamo avere
conversioni.

L’efficacia della soddisfazione non dipende solamente dalla intensità del
dolore, ma anche dalla dignità della persona che soffre. A pari dignità
è più efficace la sofferenza maggiore; a parità di dolori hanno
più valore quelli della persona più degna.

Vogliamo esprimere questa relazione con una forma simbolica matematica: Efficacia
di espiazione uguale sofferenza per dignità.

Se la dignità della persona è molto grande, ma manca il dolore, non
vi è espiazione efficace. E altrettanto l’efficacia sarà nulla ove
non vi è dignità, anche se la sofferenza sarà immensa. La dignità
della persona che soffre consiste nella sua vita soprannaturale, nella sua unione
con Cristo.

Un motore per poter entrare in azione deve essere collegato alla rete, e attraverso
questa alla centrale.

Nel capitolo seguente, trattando della Messa, cercheremo di comprendere come concretamente
si realizzano quest’unione nostra con la soddisfazione di Gesù Cristo, in
modo che la dignità di chi soffre sia la maggiore possibile.

CAPITOLO VIII

LA SANTA MESSA

La forza dell’espiazione

«È necessario non dimenticare mai che tutta
la forza dell’espiazione dipende unicamente dal cruento sacrificio di Cristo che
si rinnova ininterrottamente in modo incruento sull’altare» (Pio XI ñ Miserentissimus).

Gesù Cristo offrì sulla Croce una espiazione infinita. Questa Sua espiazione
però non toglie, che anche noi dobbiamo soddisfare, così come i Suoi
meriti non sopprimono i nostri e le nostre buone azioni.

E certo, però che la nostra soddisfazione è un nulla se non è
unita a quella di Cristo. «La nostra soddisfazione è tale, in quanto
è valorizzata da Cristo in cui espiamo facendo degni frutti di penitenza,
che valgono per Lui, da Lui sono offerti al Padre e per mezzo di Lui sono accettati
dal Padre».

Sempre l’espiazione di Cristo è unita a quella di un’anima che partecipa alla
vita di Cristo, alla vita della grazia. Tale unione è però più
perfetta quando diviene esplicita aggiunta della nostra riparazione alla Sua, del
nostro al Suo sacrificio, che si rinnova in modo incruento sull’altare.

Un giovane Sacerdote fu fatto Parroco di un quartiere parigino. Vi fu ricevuto a
sassate ed una lo colpì in fronte e cadde a terra macchiata di sangue. Il
Sacerdote allora raccolse il sasso e, alzandolo verso il Cielo, disse: «Questa
sarà la prima pietra della Chiesa che costruirò». E così
fu.

Forse questo fatto può fornirci una pallida analogia della edificazione della
Chiesa Universale sul cruento sacrificio di Cristo.

Nella Chiesa, infatti, non solo la pietra fondamentale è frutto del sacrificio;
ogni singola pietra che la forma è simbolo di un nuovo sacrificio. «Alla
quale, pietra viva, scartata dagli uomini, ma eletta ed onorata da Dio, accostandovi,
siete anche voi pietre vive edificate sopra di Lui, (per essere) casa spirituale,
sacerdozio santo, per offrire vittime spirituali, gradite a Dio per Gesù Cristo»
(1 Pt. 2, 4-6).

I sacrifici più generosi vengono a formare i gioielli e le pietre preziose
più vicine al Tabernacolo di Cristo.

“Come Mosè nell’Antico Testamento, così Gesù Cristo ci
chiama nel Nuovo dicendo: «Ognuno offra i suoi doni secondo l’ispirazione del
proprio cuore» «È giusto che ognuno metta la sua parte per il
Tabernacolo del Signore. Egli sa bene ciò che offre ciascuna persona. È
una gran bella cosa che si possa dire di te nella casa di Dio l’argento delle basi
e delle colonne è di tal altro; il bronzo dei candelieri è di quest’altro
e così via per ogni cosa.

Che vergogna sarebbe, però, se il giorno della visita non trovasse nulla di
tuo, niente che tu abbia offerto!

Sei stato così irreligioso e infedele da non lasciare nessun ricordo nel Tabernacolo
del Signore? Se il giorno della venuta il Signore vi troverà qualcosa di tuo,
nel Suo Tabernacolo, ti difenderà e ti chiamerà Suo!

Signore Gesù, concedimi di essere degno di offrirti qualche dono per il Tuo
Tabernacolo! Se fosse possibile, vorrei che ci fosse un poco d’oro mio in quello
con cui si farà l’Espiatorio! E se non posseggo oro, che ti offra almeno un
poco d’argento per le colonne… o almeno bronzo… Ma se tutto ciò è
al di fuori delle mie possibilità, che sia almeno degno di offrirti la lana
delle mie capre per il Tuo Tabernacolo!»”.

Così Origene commentava le parole di Mosè.

Riflettiamo dunque guardando la Chiesa lasciamo agire il nostro affetto. Vi è
qualcosa di nostro, qualcosa che ci appartiene intimamente in questo imponente Edificio
spirituale.

In Essa vi è qualcosa di nostro, qualcosa del nostro cuore; una particella
del nostro sacrificio, del sangue del nostro cuore. Ogni «pietra» è
un sacrificio. Dobbiamo però tener presente che ogni pietra deve essere unita
a quella fondamentale. Il nostro sacrificio deve essere unito a quello di Cristo
e ciò avviene specialmente nella Santa Messa.

Come per celebrare la S. Messa è necessario una goccia d’acqua da unire al
vino nel calice, così il nostro sacrificio, anche se piccolo, anche se molto
simile alla gocciolina d’acqua, è però necessario.

Il vino con la goccia d’acqua, simbolo della mia cooperazione sacrificale, viene
trasformato per la transustanziazione nel Sangue di Cristo. Offriamo noi stessi ,
la nostra persona, per essere trasformati in Cristo attraverso il Suo e nostro Sacrificio.

Noi possiamo offrire il sacrificio nostro e quello di Cristo, e Cristo offre il Suo
sacrificio ed il nostro. In questo modo il sacrificio ci unisce; ci fondiamo in questo
fuoco intimamente l’un l’altro.

Il culmine di questa funzione unitiva del sacrificio si ha poi nella Comunione quando
Egli viene in noi per dimorare nel nostro cuore e trasformarci in Lui.

La Messa in se stessa

Il Padre Isacco Jogues tornò dall’America dopo il
suo primo martirio: le sue mani erano state mutilate. Non gli era perciò permesso
celebrare la Messa. Fu chiesta la dispensa al Papa per questa irregolarità,
ed Urbano VIII la concesse con queste parole:

«Sarebbe cosa indegna che un martire di Cristo non potesse offrire il sangue
di Cristo».

E forse questa la definizione più bella del cattolico: «Un martire di
Cristo che offre il Sacrificio di Cristo».

La nostra vita è un martirio! «Offrite i vostri corpi in sacrificio
vivente» (Rm. 12, 1). Commenta S. Giovanni Crisostomo: «Come si può
trasformare il nostro corpo in sacrificio? Il tuo occhio si astenga dal guardare
cose cattive e diverrà sacrificio; la tua lingua non pronunci nessuna parola
indegna e questo è sacrificio…»

«Castità nella gioventù, martirio senza sangue» diceva
S. Bernardo.

Questo martire, che è ogni cattolico, si presenta ogni mattina ad offrire
il sacrificio di Cristo a cui unisce la piccola goccia d’acqua del suo martirio.

Ogni Messa rappresenta, inoltre, l’offerta incruenta della giornata, ossia del proprio
martirio giornaliero, della propria testimonianza giornaliera della carità
di Cristo. Come Gesù Cristo volle espressamente che il Cenacolo fosse ben
adornato per l’offerta del Suo sacrificio incruento, prima del sacrificio doloroso

e sanguinoso del Golgota, mentre due ore più tardi le luci erano ormai spente
e nelle tenebre esteriori dell’orto del Getsemani, cominciava il sacrificio cruento.

Altrettanto accade nella nostra Messa. Il sacerdote si riveste di paramenti preziosi
e si adornano splendidamente i nostri altari: si celebra il nostro sacrificio e la
nostra offerta incruenta. Poco dopo si spengono le luci e comincia la realtà
sanguinosa di quanto abbiamo offerto insieme al sacerdote in modo incruento.

Nella Messa, infatti, non offriamo cose nostre, ma noi stessi come vittime a Lui.

Questa vittima sarà sacrificata durante il giorno.

Il Sacerdote ci dà la benedizione in forma di Croce, e noi la accettiamo rifacendo
su noi lo stesso segno. «Possiamo venir colmati di ogni benedizione e grazia».
Ora comincia il sacrificio cruento. Viviamolo il nostro sacrificio già unito
nella volontà a quello di Cristo. Domani o la domenica successiva ritorneremo
di nuovo ad aggiungere la nostra gocciolina d’acqua al vino della natura umana sacrificata
di Cristo, per unirci a Lui nuovamente nello stesso sacrificio.

Se la nostra vita sarà una continua testimonianza resa a Cristo, anche di
noi si potrà dire che siamo:

«MARTIRI DI CRISTO CHE OFFRONO IL SACRIFICIO
DI CRISTO».



CAPITOLO VIII



LA DONAZIONE TOTALE DI MARIA MODELLO DELLA CONSACRAZIONE VERGINALE

Possiamo dire senz’altro che il grande modello causale della
nostra consacrazione totale a Cristo è la SS. Vergine. La figura della Madonna,
della nostra Madre, è veramente meravigliosa! Pensiamo a quello che suppose
la grazia della Immacolata Concezione per la Vergine santa.

C’è una certa tendenza a presentarci la vita della Vergine come quella di
una giovane, tale come saremmo noi stessi, o come sarebbero delle giovani che abbiamo
conosciuto, come sarebbe una campagnola. Ci parrebbe, con questo, voler mettere la
Madonna nel posto che le compete togliendola da un ideale di sogno e di fantasia
in cui l’ha posta una pietà poco razionale.

Ed è così che si sono scritti dei libri, nei quali la Madonna appare
con questa psicologia: non pensava alla verginità, ma piuttosto a sposarsi
come tutte le altre giovani del suo tempo, poiché non ci si spiega come fosse
venuta, senza esempi precedenti, ad una determinazione di verginità. Penso
che questo sia fare ingiuria alla Madonna e ingiuria alla grazia.

Quando un’anima si dà veramente a Cristo, totalmente, ciò che primieramente
nasce in lei è un gran desiderio di verginità, di purezza, di donazione
totale a Cristo.

E questo che sgorga in noi, non per ragionamento ma per un istinto soprannaturale,
per la psicologia interiore che porta con sé la grazia tanto limitata che
a noi si comunica, non lo dovrebbe creare la grazia della Immacolata Concezione?
Se i teologi ci dicono che la Madonna aveva, al principio della sua vita, maggior
copia di grazia che tutti i santi arrivati al termine della loro esistenza perché
dobbiamo misurare la psicologia della vergine santa, con la psicologia di una povera
contadina che appena possiede un pochino di grazia santificante? No: bisogna misurare
quella della Madonna Bambina a quella dei grandi santi mistici.

Se vogliamo comprendere, un poco, la verginità di Maria, che cosa è
questa sua consacrazione totale, dobbiamo partire da questo punto: la Madonna, essendo
dalla sua concezione destinata ad essere la Madre di Dio, era oggetto di un amore
di predilezione, tale che noi non possiamo nemmeno concepire. Dio l’avvolgeva come
un cerchio amoroso e la penetrava sensibilmente della delicatezza del suo amore.
Ed ella lo percepiva e, come un’anima creata immacolata, era tutta orientata a Dio
con tutta la sublimità e la semplicità in una tensione totale. Semplicemente,
poiché a Lei sembrava la cosa più naturale del mondo amare Dio come
Lo amava, totalmente, esclusivamente, sentendosi penetrata dall’amore geloso di Dio.
La maggior parte delle giovani cristiane percepiscono questo amore con un semplice
sguardo su se stesse. E dire, che noi altri, tante volte consigliamo loro di vivere
la vita di oggi perché siano normali, perché tutto il resto è
complesso, anormale, ostacolando così l’opera della grazia!

Questa preparazione del cuore per Lui solo, possiamo dire che elevò Maria
ad un grado, in certo qual modo, infinito.

Così Essa era tutta orientata verso Dio, unicamente attratta da Lui.

Amava Dio senza riflettere sul suo grande amore. Perché voler misurare l’amore
è diminuirlo. Una madre non riflette se ama suo figlio. Per la Madonna tutto
questo era naturalissimo.

La Vergine santissima, durante tutta la sua vita, si è offerta a Dio semplicemente,
come un giglio aperto, senza mai paragonarsi con altri.

Questa è la verginità, questa la disposizione interiore di colui che
si consacra a Dio solo. La verginità non consiste in una purezza materiale,
e neanche in un pudore infantile con il suo atteggiamento di riserva. L’essenza della
verginità sta nel cuore aperto a Dio solo, e di conseguenza tutto quanto l’essere.
La verginità è quella del cuore: Dio solo. Si può raggiungere
un tale grado di verginità, che il detenersi un istante in un nulla può
sembrare una infedeltà all’amore esclusivo di Dio.

Ecco l’atteggiamento della Madonna: un giglio aperto verso Dio: totalmente vergine.

È strano. Dio che destinava la Vergine ad essere madre, le infonde l’istinto
di essere vergine. È strano ma bellissimo: le dà precisamente l’istinto
di essere vergine, perché sia madre.

Il primo istinto di ogni bimba è quello della maternità. Vediamo la
bimba che istintivamente prende la bambola tra le braccia e la fa addormentare, la
veste, la cura e la rimprovera. Questo è l’istinto materno. Più tardi
sente quello di sposa, quando incomincia ad occuparsi delle pieghe del vestito, se
vede una macchia, se la trovano carina…

Nella Madonna, la maternità nasce dalla verginità, cioè dal
suo amore esclusivo a Dio. È così che Dio la prepara ad essere Madre:
con la donazione totale ed esclusiva a Lui, con lo sbocciare del giglio unicamente
aperto per Dio solo.

E quando il Verbo scopre la bellezza. del giglio, s’inclina verso la Vergine; non
che Dio si abbassi veramente, ma perché fa le cose belle per compiacersi in
esse, così ora il Verbo si compiace nella bellezza della Vergine attratto
da questo giglio aperto.

Vi è una immagine che rappresenta Gesù Bambino tenendo tra le mani
un giglio fiorito che lo guarda, e sotto una frase che dice: Suscipe me. Prendimi.
E non si sa se è il giglio che dice a Gesù: prendimi, o se è
Gesù che dice al giglio: prendimi. È il momento dell’Incarnazione.
Maria, il giglio aperto verso il Verbo, il Verbo contemplando l’Immacolata, la Vergine.
La Vergine dice a Gesù: prendimi; e Gesù alla Vergine: prendimi. E
mentre la Vergine prende Gesù, Gesù prende la Vergine e il Verbo s’incarna.
Frutto della verginità: l’Incarnazione.

«Dilatare, aperire, tamquam rosa fragrans mire». Apriti, sboccia come
una rosa che esala una fragranza deliziosa. E così la Vergine, pronuncia il
SUO sì nella scena dell’Incarnazione, «e il Verbo si fece carne»
e la Vergine divenne madre di Dio e dei peccatori.

La consacrazione di Maria a Dio, che non smentì mai, si realizza di nuovo
nel momento in cui stringe tra le braccia il Figlio di Dio. La Vergine Lo adora profondamente;
il Verbo prima di allora non aveva mai ricevuto una simile adorazione.

E quando la Vergine sta davanti a quel Bimbo che è suo figlio, che ama con
un amore verginale, perché non si riflettono su di Lui i lineamenti del padre
ma i suoi stessi e la Divinità del Verbo, amandolo si consacra a Lui. E senza
dubbio gli direbbe: «Gesù, i miei occhi per guardarti, le mie labbra
per baciarti, le mie mani per curarti, il mio cuore per amarti, come vulcano d’amore».
E la Vergine rimane in estasi.

La contemplazione di Maria. Maria vedeva in Gesù il Verbo non con una visione
intuitiva, che i teologi comunemente non ammettono, ma con la vita di fede trasparente
che quasi glielo faceva vedere. Se diciamo dei grandi santi che nei più alti
gradi della loro contemplazione vivono una vita di fede trasparente che sembra quasi
che vedano il Verbo, quanto più possiamo dirlo della Vergine e con che contemplazione
di amore! Nel volto di Gesù, nel suo sorriso vedeva la bontà del Verbo,
la gustava e, attraverso la sua Umanità, toccava la dolcezza della Divinità.

Per la Vergine tutto si convertiva nel sorriso di Dio per la sua anima. Dice S. Giovanni
della Croce che negli ultimi gradi della contemplazione si vanno togliendo i veli
davanti agli occhi dell’anima e rimane una tela così leggera che è
quasi trasparente, ma che è ancora fede. ma la Vergine andò molto più
avanti.

Questa è la vita della Vergine, la consacrazione di Maria al Verbo, la sua
consacrazione a Gesù, supremo ideale della nostra consacrazione.

Possiamo pensare che la Vergine in quel momento di adorazione a Betlemme ebbe una
preghiera verginale: «Gesù, che vi siano sempre nel mondo persone che
si consacrino come me; che i loro occhi servono solo per ammirarti, le loro labbra
per amarti, le loro mani per curarti, il loro cuore solo per amarti». E da
questa preghiera verginale di Maria nacquero il sacerdozio e la verginità,
perpetuazione dell’Ufficio di Maria nel mondo.

***

Che ufficio compì Maria come madre del Verbo? Ella
accolse nel suo seno la parola di Dio la custodì e la diede a noi. Quando
più tardi, durante la vita pubblica, diranno a Gesù: «Guarda
che ci sono fuori tua madre e i tuoi fratelli» Egli risponderà: «Chi
è mia madre? Chi sono i miei fratelli? Colui che fa la volontà del
Padre mio, questa è mia madre, mio fratello e mia sorella». Cioè:
Maria è la madre del Cristo nel senso più pieno. Perché? Perché
fa la volontà del Padre, cioè accolse nel suo cuore il Verbo di Dio,
lo custodì e ce Lo diede incarnato: Suscepit Verbum. L’opera di Maria rispetto
a Gesù è fare in modo che acquisti la pienezza della sua scienza e
della sua virtù. La Vergine educatrice del Cristo! E così, custodito
e formato lo dà a noi nella vita pubblica e sulla croce

Nella sua consacrazione a Gesù la Vergine chiese che la sua funzione si perpetuasse
nel mondo. E tale funzione si è perpetuata nel sacerdozio e nella verginità:
persone dedicate esclusivamente alla cura di Gesù, ad accogliere la parola
di Dio, ad incarnarla in se stesse, custodirla e a dirla agli uomini.

Maria è Madre ed anche restauratrice di vergini. Madre di vergini per la sua
orazione e per l’ispirazione del suo amore, si preoccupa che esistano sempre cuori
verginali. Ed è anche restauratrice di vergini. Quando qualcuno per sua disgrazia
e forse anche per nostra negligenza ha perduto questa verginità, la Vergine
lo riabilita. Dobbiamo toglierci dalla testa l’idea che ha portato alla perdizione
tante giovani: che, una volta perduta la verginità non vi sia rimedio alcuno.
No, la verginità si può riconquistare. Ugualmente quando si commette
un peccato di superbia non si può annullarlo, ma si può riacquistare
l’umiltà Così è per la verginità.

Abbiamo un esempio molto bello in S. Ignazio di Loyola, uomo dedito alle vanità
del mondo in una vita militare sregolata e vuota. A Loyola riceve la visita della
Vergine, della quale non osava dire che fosse stata una vera visione, benché
gli effetti glielo facessero presentire. Con l’intervento di Maria, con visione reale
o no, egli sente che gli vengono tolti dalla mente i resti di tutti i peccati passati
di impurità e rimane con l’anima pura e limpida. Ecco l’opera della Vergine,
riconquistatrice di purezza.

Maria voleva che si perpetuasse nel mondo la verginità perché, se Gesù
nacque a Betlemme dalla Vergine, è legge generale che anche ora la nascita
di Gesù nelle anime si operi per mezzo di vergini. E la Chiesa apprezza tanto
la verginità proprio perché rende Madri di Cristo, genera Cristo nelle
anime. Diceva infatti S. Gregorio Magno alle giovani: «Siate vergini, o giovani,
per poter essere anche voi madri di Cristo».

Ma come possiamo generare Gesù in noi e negli altri? Mediante la nostra verginità,
la nostra consacrazione totale a Lui.

Accogliendo la sua parola. Dobbiamo stare attenti a ricevere la parola di Gesù
e ad accoglierla. Egli stesso ci dice che il seminatore uscì a seminare la
parola di Dio e che una parte cadde su un terreno arido e pietoso, un’altra tra le
spine ed un’altra ancora su una terra feconda. Fortunato colui che raccoglie la parola
di Dio e la fa fruttificare in opere di salvezza.

Custodendo la parola di Dio. Dice il Vangelo che la Santissima Vergine ascoltava
la parola di Gesù, la meditava e la conservava nel cuore. Conferens in Corde
suo. Una volta accolta la parola di Dio bisogna fare attenzione che nulla ne vada
perduto, custodirla e portarla, come dice S. Paolo, fino alla pienezza dell’età
di Cristo; per questo lo stesso Apostolo diceva «Guardate che sono per voi
come una madre che vi sta generando fino a che Cristo si formi in voi», fino
alla completa maturità. Questo fa la meditazione. Meditare è semplicemente
riflettere con spirito di fede sulla parola sensibile di Dio che viene a noi attraverso
il Vangelo, gli avvenimenti provvidenziali e la dottrina della Chiesa, perché
il nostro cuore sia penetrato da essa. Riflettiamo dunque sulla parola che ci giunge
sensibilmente e ruminiamola in noi con spirito di fede sempre aperto all’azione di
Dio. Conferens in Corde suo; Fiore e frutto della meditazione: la nascita di Gesù
Cristo nel nostro cuore.

Dobbiamo imitare la Vergine e perpetuare, con il nostro amore esclusivo a Cristo,
anche questa sua opera di Madre dei peccatori.

Curramus et amemus. Immagina S. Agostino di fare una scommessa con Gesù e
dice: vediamo chi ama di più, e lanciando a distanza il suo amore come un
giavellotto dice a Gesù con santa audacia di amore:

«Guarda, ti amo fino a lì. È comprendendo la pochezza del suo
amore aggiunge subito: «e se ti sembra poco il mio amore, fa che ti ami di
più».

Curramus et amemus. Amare Gesù fino ad unirsi a Lui, in una contemplazione,
come quella di Maria, in cui la nostra fede si vada facendo trasparente. Viviamo
nello spirito saporoso della fede e non crediamo che l’aridità sia cosa normale
nella vita spirituale. Dobbiamo amare affettuosamente, e qualcosa manca quando una
persona è abitualmente in stato di aridità: o sta male fisicamente
o ha qualcosa nello spirito. Dio non ha interesse a tenerci in stato di aridità
e, se ci tiene in essa senza alcuna nostra colpa, sarà perché stiamo
per entrare in gradi più elevati nella vita spirituale.

Dobbiamo infine imitare la Santissima Vergine nel dare Gesù Cristo alle anime,
nell’essere anche noi, come Lei, madri dei peccatori. Ma come possiamo realizzare
e perpetuare l’opera di Maria come madre delle anime, portatrice di Cristo alle anime?
Gesù è venuto a noi e continua a venire per mezzo della Vergine, noi
pure dobbiamo portarlo per mezzo di Lei e lo faremo innanzi tutto realizzando la
dolce presenza di Maria. Ella aveva questo grande desiderio di perpetuarsi nelle
anime che consacrassero al Figlio tutta la loro vita per compiacere a Lui. Ma tra
queste anime ve ne sono alcune nelle quali in modo particolare desidera realizzare
la sua presenza per una speciale docilità alle sue ispirazioni; anime che
Ella sceglie particolarmente per riflettersi in esse. E in queste anime, più
che nelle altre, fa in modo che sia vivo l’amore di Cristo, ma anche ama Ella stessa
Gesù in esse in modo che Egli veda l’amore di queste anime come infuso, sostenuto,
aiutato ed elevato da Lui stesso. Come si realizza ciò? In modo molto semplice;
si comprende molto bene con un esempio. Abbiamo una famiglia. Si avvicina il compleanno
del padre. Già un mese prima la buona sposa, la buona mamma comincia a preparare
il bambino perché dica una poesia al papà. e quando il papà
sta in ufficio, prende il bimbo e gl’insegna con molta fatica a declamare e quali
gesti deve fare. E il bimbo apprende. Giunge il giorno, la mamma prende il bimbo,
lo fa salire su una sedia e gli dice: «Su, dì la poesia al papà»;
e lo anima e gli si mette dietro per suggerirgli un poco, in caso dimenticasse qualche
cosa. Il bambino dice così la poesia. Che cosa vede il padre in questa poesia?
Solo l’amore del bimbo? No, soprattutto l’amore della sposa che gli ha insegnato
la poesia, gli ha insegnato a declamare e ad amare il suo papà. Questo stesso
è l’ufficio di Maria.

Dice il Venerabile Beda che la Vergine fu felice di essere stata la madre di Gesù
generandolo fisicamente, ma più fortunata ancora perché rimase come
eterna custode dell’amore di Cristo. Ella infatti ha cura che Cristo sia amato nel
mondo. Cura di Maria che dobbiamo fare nostra. Con docilità a Lei dobbiamo
anche noi essere custodi dell’amore di Gesù; la nostra consacrazione a Lui
ci deve portare a questo.

Abbiamo qui un modo di realizzare questa perpetuazione della Vergine, la dolce presenza
di Maria nel mondo. Ella non sta in mezzo a noi come Gesù nell’Eucarestia
con una presenza reale, ma sta tra noi con una presenza morale, con la presenza di
anime docili alla sua ispirazione e che perpetuano questo amore a Cristo.

E nella nostra vita attiva di contatto con le anime procuriamo sinceramente che tutte
quelle affidateci imparino da noi ad amare Gesù. Imitando Maria che è
la custode dell’amore per Gesù; ma dell’amore perfetto. Sempre più
in alto. Per lo meno, che docili a Gesù siamo così sinceri da non chiamare
perfezione quello che è imperfezione. Che non diciamo: «questo non è
peccato» come nostro unico rimedio, ma che vediamo ciò che Gesù
Cristo domanda all’anima, che, in questo, possiamo facilmente sbagliarci, e non è
tanto semplice. Che l’anima non sia più intransigente del Direttore e non
si definiscano le cose spirituali con dire: «questo non è peccato».
Che tristezza! Gesù che lavora delicatamente quest’anima desiderando portarla
alla santità ed ecco che le dicono con stupore: «ma se questo non è
peccato»…

Siamo i custodi gelosi affinché queste anime amino Cristo con tutta la loro
anima.

Così imiteremo la Vergine santissima nella nostra consacrazione totale.





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