Il latino vincolo di unità fra popoli e culture

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Il latino

vincolo di unità fra popoli e culture

di Uwe Michael Lang



Uwe Michael Lang traccia l’evoluzione storica

della lingua liturgica nel rito romano

L’unità culturale
e politica del mondo mediterraneo fu un fattore provvidenziale nella diffusione della
fede cristiana. In particolare, la diffusione della lingua greca nei centri urbani
dell’Impero Romano favorì l’annuncio del Vangelo. Il greco parlato a Oriente
e Occidente non era l’idioma classico, bensì la koiné semplificata,
il linguaggio comune delle varie nazioni della parte orientale del mondo mediterraneo:
Grecia, Asia Minore, Siria, Palestina ed Egitto.

La koiné greca era anche la lingua del proletariato urbano in Occidente
che vi era emigrato dai territori orientali dell’Impero. Roma era divenuta una città
multi-etnica e multi-culturale. In essa viveva anche una consistente popolazione
ebraica, che sembra parlasse principalmente il greco. La lingua delle prime comunità
cristiane a Roma era il greco. Ciò risulta evidente dalla Lettera ai Romani
di Paolo e dalle prime opere letterarie cristiane che videro la luce a Roma, per
esempio la Prima Lettera di Clemente, il Pastore di Erma e gli scritti
di Giustino.

Nei primi due secoli si avvicendarono parecchi papi con nomi greci e le iscrizioni
tombali cristiane erano composte in greco. Durante questo periodo, greca era anche
la lingua comune della liturgia romana. Lo spostamento verso il latino non cominciò
a Roma, ma nell’Africa settentrionale, dove i convertiti al cristianesimo erano in
maggioranza nativi di lingua madre latina piuttosto che immigrati greco parlanti.
Verso la metà del terzo secolo questa transizione era molto avanzata: membri
del clero romano scrivevano a Cipriano di Cartagine in latino; latina era anche la
lingua in cui Novaziano compose il suo De trinitate e altre opere, citando
una versione latina esistente della Bibbia. Nessun riferimento si fa qui alla cosiddetta
Traditio Apostolica, attribuita a Ippolito da Roma, a causa dell’incertezza
sulla data, sull’origine e sul vero autore.

Sembrerebbe che nella seconda metà del terzo secolo il flusso immigratorio
dall’Oriente verso Roma diminuisse. Questo cambio demografico comportò un
peso crescente dei nativi latino parlanti nella vita della Chiesa di Roma. Ciò
nonostante il greco continuò ad essere usato nella liturgia romana, almeno
a un certo livello, fino alla seconda metà del IV secolo; questo si evince
da una citazione greca della preghiera eucaristica nell’autore latino Mario Vittorino,
risalente al 360.

Intorno a quell’epoca, comunque, la transizione al latino era in fase molto avanzata;
ciò risulta molto evidente da un autore altrimenti sconosciuto che scrive
fra il 374 e il 382, il quale sostiene che la preghiera eucaristica a Roma si riferisce
a Melchisedek come summus sacerdos – un titolo che ci suona familiare
dal più tardo Canone della messa.

La più importante risorsa per la storia della prima liturgia latina è
Ambrogio di Milano. Nel suo De sacramentis, una serie di catechesi per i neo
battezzati tenute intorno al 390, egli cita estesamente la preghiera eucaristica
usata a quell’epoca a Milano. I passaggi citati sono le forme più antiche
delle preghiere Quam oblationem, Qui pridie, Unde et memores,
Supra quae, e Supplices te rogamus del Canone Romano. Altrove, nel
De sacramentis, Ambrogio sottolinea il suo desiderio di seguire l’uso della
Chiesa romana in tutto; per questa ragione, possiamo ritenere con certezza che questa
preghiera eucaristica fosse di origine romana.

Anche nei sermoni di Zeno, vescovo di Verona dal 362 al 372, ci sono tracce che attestano
la diffusione geografica di questa forma originaria del Canone Romano.

La formulazione letterale delle preghiere citate da Ambrogio non è sempre
identica al Canone che Gregorio Magno promulgò alla fine del VI secolo ed
è giunto fino a noi con poche modifiche di scarso rilievo rispetto ai libri
liturgici più antichi, specialmente il vecchio Sacramentario Gelasiano, risalente
alla metà dell’VIII secolo, ma ritenuto eco di usi liturgici più antichi.
In ogni caso le differenze fra questi due testi sono di gran lunga inferiori alle
loro somiglianze, dato che i quasi trecento anni intercorrenti fra di essi furono
un periodo di intenso sviluppo liturgico.

Il passaggio dal greco al latino nella liturgia romana avvenne gradualmente e fu
completato sotto il pontificato di Damaso I (366-384). Da allora in poi la liturgia
a Roma fu celebrata in latino, con l’eccezione di poche reminiscenze dell’uso più
antico, come il Kyrie eleison nell’Ordo e le letture in greco nella
messa papale. Stando a Ottato di Milevi, che scrive intorno al 360, c’erano più
di quaranta chiese a Roma prima dell’editto di Costantino. Se questa informazione
è vera, sarebbe ragionevole opinare che ci fossero comunità latino
parlanti nel III secolo, se non prima, che celebravano la liturgia in latino, in
particolare la lettura della Sacra Scrittura.

I Salmi erano stati cantati in latino sin dalle origini e l’antica versione usata
nella liturgia aveva acquisito una tale aura di sacralità che Girolamo la
corresse soltanto con molta cautela. In seguito egli tradusse il Salterio dall’ebraico
non per uso liturgico, come disse, ma per fornire un testo agli studiosi e al dibattito.
Christine Mohrmann suggerisce che la liturgia battesimale fosse tradotta in latino
sin dal II secolo. Nessuna certezza si può avere su questi punti, ma è
chiaro che ci fu un periodo di transizione e che esso fu lungo.

Mohrmann introduce una distinzione utile fra, primo, “testi di preghiera”,
dove la lingua è soprattutto un mezzo di espressione, secondo, testi “destinati
a essere letti, l’Epistola e il Vangelo”, e, terzo, “testi confessionali”,
come il credo. Nei testi di preghiera ci troviamo di fronte a modi di esprimersi;
negli altri primariamente a forme di comunicazione.

Recenti ricerche su lingua e rito, come l’opera di Catherine Bell, confermano l’intuizione
di Mohrmann che la lingua ha differenti funzioni in differenti parti della liturgia,
che vanno oltre la mera comunicazione o informazione. Queste riflessioni teoretiche
ci aiutano a capire lo sviluppo della prima liturgia romana: quelle parti in cui
gli elementi di comunicazione erano prevalenti, come la lettura delle Scritture,
furono tradotte prima, mentre la preghiera eucaristica continuò ad essere
recitata in greco per un periodo molto più lungo.

La “sociolinguistica” – una disciplina accademica relativamente nuova –
ci mette in guardia sul fatto che la scelta di una lingua rispetto a un’altra non
è mai questione neutrale o trasparente. Di conseguenza è importante
considerare il cambio dal greco al latino nella liturgia romana nei suoi contesti
storici, sociali e culturali. Gli storici dell’antichità hanno indicato che
la formazione di lingua latina liturgica fece parte di uno sforzo a largo raggio
di cristianizzazione della cultura e della civiltà romana.

Nella seconda metà del IV secolo i vescovi più influenti in Italia,
soprattutto Damaso a Roma e Ambrogio a Milano, erano impegnati a cristianizzare la
cultura dominante dei loro giorni. Nella città di Roma c’era una forte presenza
pagana e specialmente l’aristocrazia continuava ad aderire ai vecchi costumi, anche
se nominalmente erano divenuti cristiani. Roma non era più il centro del potere
politico, ma la sua cultura continuava ad avere radici nella mentalità delle
sue elites.

Il IV secolo è ora considerato un periodo di rinascimento letterario, con
un rinnovato interesse per i “classici” della poesia e della prosa romane.
Gli imperatori del IV secolo coltivarono questa Latinitas, e ci fu una riscoperta
del latino anche ad Oriente. Con tenacia caratteristica, Roma mantenne le sue antiche
tradizioni.

In relazione a ciò, i papi del tardo IV secolo promossero un progetto consapevole
e comprensivo di appropriazione dei simboli della civiltà romana da parte
della fede cristiana. Parte di questo tentativo fu l’appropriazione di spazio pubblico
tramite impegnativi progetti edilizi. Dopo che gli Imperatori della dinastia di Costantino
avevano dato il via con le monumentali basiliche del Laterano e San Pietro, come
pure con le basiliche dei cimiteri fuori delle mura urbane, i papi continuarono questo
programma edilizio che avrebbe trasformato Roma in una città dominata da chiese.


Il progetto più prestigioso fu la costruzione di una nuova basilica dedicata
a San Paolo sulla Via Ostiense, sostituendo il piccolo edificio costantiniano con
una nuova chiesa simile per dimensioni a San Pietro. Un altro aspetto importante
fu l’appropriazione del tempo pubblico con un ciclo di feste cristiane lungo il corso
dell’anno al posto delle celebrazioni pagane (vedi il calendario Filocaliano dell’anno
354). La formazione del latino liturgico fece parte di questo sforzo omnicomprensivo
di evangelizzare la cultura classica.

Christine Mohrmann ravvisa in essa il fortuito combinarsi di un rinnovamento della
lingua, ispirato dalla novità della rivelazione, e di un tradizionalismo stilistico
fermamente radicato nel mondo romano. Il latino liturgico ha la gravitas romana
ed evita l’esuberanza dello stile di preghiera dell’Oriente cristiano, che si ritrova
anche nella tradizione gallicana. Questa non fu un’adozione della lingua “vernacola”
nella liturgia, dato che il latino del Canone Romano, delle collette e dei prefazi
della messa, fu rimosso dall’idioma della gente comune. Essa era una lingua fortemente
stilizzata che difficilmente avrebbe capito un cristiano medio di Roma della tarda
antichità, considerato specialmente che il livello di istruzione era molto
basso rispetto ai nostri tempi. Inoltre lo sviluppo della Latinitas cristiana
può avere reso la liturgia più accessibile alla gente di Milano o Roma,
ma non necessariamente a coloro la cui lingua madre era il gotico, il celtico, l’iberico
o il punico.

È possibile immaginare una Chiesa occidentale con lingue locali nella sua
liturgia, come in Oriente, dove, in aggiunta al greco, erano usati il siriano, il
copto, l’armeno, il georgiano e l’etiope. Ad ogni modo la situazione in Occidente
era fondamentalmente differente; la forza unificatrice del papato era tale che il
latino divenne l’unica lingua liturgica. Questo fu un fattore importante per favorire
la coesione ecclesiastica, culturale e politica.

Il latino liturgico fu sin dai primordi una lingua sacra separata dalla lingua del
popolo; tuttavia la distanza divenne maggiore con lo sviluppo delle culture e delle
lingue nazionali in Europa, per non menzionare i territori di missione. “La
prima opposizione al latino liturgico – ha scritto Christine Mohrmann – coincise
con la fine del latino medievale come “seconda lingua viva”, che fu rimpiazzato
da una lingua veramente “morta”, il latino degli umanisti. E l’opposizione
dei nostri giorni al latino liturgico ha qualcosa a che fare con l’indebolimento
dello studio del latino – e con la tendenza al “secolarismo”” (“The
Ever-Recurring Problem of Language in the Church”, in Études sur le
latin des chrétiens, IV,
Roma, 1977).

Il Concilio Vaticano II volle risolvere la questione estendendo l’uso del vernacolo
nella liturgia, soprattutto nelle letture (Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum
Concilium
, art. 36, n. 2). Allo stesso tempo, esso sottolineò che “l’uso
della lingua latina … sia conservato nei riti latini” (Sacrosanctum Concilium,
art. 36, n. 1; cfr anche art. 54). I Padri conciliari non immaginavano che
la lingua sacra della Chiesa occidentale sarebbe stata rimpiazzata dal vernacolo.


La frammentazione linguistica del culto cattolico nel periodo post-conciliare si
è spinta così oltre che la maggioranza dei fedeli oggi può a
stento recitare un Pater noster insieme agli altri, come si può notare
nelle riunioni internazionali a Roma o a Lourdes. In un’epoca contrassegnata da grande
mobilità e globalizzazione, una lingua liturgica comune potrebbe servire come
vincolo di unità fra popoli e culture, a parte il fatto che la liturgia latina
è un tesoro spirituale unico che ha alimentato la vita della Chiesa per molti
secoli. Infine, è necessario preservare il carattere sacro della lingua liturgica
nella traduzione vernacola, come fa notare l’istruzione della Santa Sede Liturgiam
authenticam
del 2001.



(©L’Osservatore Romano – 15 novembre 2007)