Dell’amore al proprio disprezzo (ARTICOLO III)

«DELL’AMORE
AL PROPRIO DISPREZZO»

DEL SERVO DI DIO

P. GIUSEPPE IGNAZIO FRANCHI d’O.












ARTICOLO III

Conseguenza
generale, che risulta dal merito riconosciuto del proprio disprezzo, la quale conchiuda
doversi da noi amare il disprezzo.




Quantunque riesca assai malagevole all’uomo stimatore grande di se stesso il
persuadersi di meritare il disprezzo, più difficile però senza paragone
è per lui amare il disprezzo medesimo. E ciò accade perché l’uomo,
per il peccato di Adamo, è rimasto molto più offeso nella volontà
rispetto al bene da amarsi che nell’intelletto o al vero da intendersi. Oltre a questo,
è da osservarsi che, fino a tanto che il punto si raggira nel semplice conoscimento
del merito del disprezzo, non si esce fuori dei termini della speculazione, e non
si tratta ancora di giungere alla pratica, in cui appunto consiste il più
arduo e. laborioso di questo esercizio. Ma ove si ragiona d’amare il disprezzo, s’entra
subito nei confini del pratico, essendo proprio dell’amore unire il cuore all’oggetto
amato: però qui si sentono i maggiori contrasti e ripugnanze della natura
ribelle. Qui conviene Pertanto far alto, e indirizzare tutta la batteria coi divino
aiuto ad espugnare la durezza dell’umano cuore, ed impegnarlo ad amare il proprio
disprezzo. Dunque si prega il pio lettore a riflettere, che conoscendo un cristiano,
al lume di Dio, di veramente meritare il disprezzo, ne viene per legittima conseguenza,
che lo deve anche amare: ed eccone i motivi convincentissimi, che sono altrettante
manifeste riprove della rettitudine della sopraccennata conseguenza.



Primo motivo. L
A
VERITÀ




È proprio dei figliuoli di Dio, che sono anche figliuoli della luce, il camminar
fedelmente dietro la scorta della verità. A questo ci esorta s. Paolo: Comportatevi
perciò come i figli della luce
(Ef 5,8). Di questo soprattutto
si compiaceva l’apostolo ed evangelista S. Giovanni: Non ho gioia più grande
di questa, sapere che i miei figli camminano nella verità
: e questo infinitamente
piace a Dio, che è la stessa Verità per essenza (Io sono la verità;
Gv 14,6), che l’uomo si regoli colla verità, e con l’affetto e con
le opere si conformi colla verità. Quindi essendo tanto vero, che l’uomo deve
giudicare di sé di meritare il disprezzo, che ne ha tutto il merito; e dall’altra
parte dall’amar che egli fa il disprezzo, Dio ne resta ben servito, e l’uomo medesimo
moltissimo avvantaggiato, come si rileva dal detto del primo articolo della presente
operetta, e meglio da quello che si dirà in appresso nel quinto, bisogna che
si induca ad amarlo, se vuol tenersi forte sul vero, e governarsi con quello.



Secondo motivo. L’
ORDINE
DELLA DIVINA PROVVIDENZA.




Questo ríchiede, che ciascheduno ami un trattamento a sé convenevole
o proporzionato alla sua condizione, e a un tal ordine l’uomo saggio deve conformarsi.
Quindi se siamo un nulla, come Dio c’insegna, dobbiamo esser contenti d’un trattamento,
che abbia proporzione e corrispondenza col nulla, e quello amare, e in conseguenza
amare il vilipendio e il disprezzo, il quale appunto al nulla conviene. Inoltrandoci
più innanzi con questo lume ben si ravvisa che dovremmo anzi vergognarci di
esser trattati come se fossimo qualche cosa di grande, essendo in realtà un
niente.



Terzo motivo. L
A
GIUSTIZIA.




La giustizia si deve amare moltissimo, perché Dio è infinitamente giusto,
e l’ ama senza fine: Giusto è il Signore, ama le cose giuste (Sal
11 (10), 7). Ora la giustizia richiede, che ognuno abbia il suo, e che siano umiliati
i superbi, e avviliti gli oltraggiatori di Dio. Dunque se tali siamo stati, e tali
veramente può dirsi che siamo nel corso di questa nostra vita mortale, conviene
amare il disprezzo così giustamente a noi dovuto; onde si ripari con il nostro
abbassamento quel che fui disordinato dal nostro orgoglio, e resti reintegrata la
divina Giustizia con l’atterramento di chi ebbe l’ardire di violarne i diritti.

Da tutto ciò si ricava, che qualunque persona di buon senno, che voglia procedere
secondo la verità e ami il retto ordine da Dio stabilito, deve tenersi nello
stato a se conveniente, e di più ella sia amante del giusto e le stia a cuore
la divina Giustizia che essenzialmente è Dio medesimo, quel Dio che deve essere
amato da noi con tutte le nostre forze; e gli prema di rendere una gloria sincera
al suo divino Sovrano: e conosciuto che abbia di veramente meritare il disprezzo,
deve impegnarsi a procurarne l’amore, ad affezionarsi a mirarlo di buon occhio, a
stringerselo al cuore e farlo suo. Misero l’uomo, se non si prevale del conoscimento
di meritare il disprezzo, per quindi far passaggio all’amore! Un tale non farà
mai acquisto della vera evangelica umiltà: e al più potrà forse
arrivare ad esser umile di cognizione, ma non umile di cuore, nel che la sostanza
consiste della sincera umiltà, e non apprenderà mai per,sua colpa la
grati lezione espressa dal divino Maestro in questi pochi ma sugosissimi termini:
imparate da me, che sono mite e umile di cuore (Mt 11,29), e in conseguenza
non darà mai a Dio quell’onore, che nelle divine scritture si protesta di
ricavare dai veri umili: grande è la potenza del Signore e dagli umili
egli è glorificato
(Sir 3, 19-20): questo onore principalmente
consiste nella volontaria profondissima sottomissione e totale annichilamento dell’uomo
dinanzi alla infinita Maestà di Dio, per mezzo della quale la creatura offre
un giusto omaggio al suo creatore, e il nulla al tutto. E trattandosi di un uomo
che per superbia ha mancato di rispetto al suo Dio, questo divino onore consiste
che egli si abbandoni di buon cuore alle umiliazioni e disprezzi, onde con l’accettazione
volontaria e con l’amore di quel che è del tutto contrario alla superbia medesima,
si reintegri e si risarcisca l’offesa divina Giustizia; e nel tempo stesso s’avverino
quelle divine parole tante volte replicate nel Vangelo, che chiunque si esalta
sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato
(Lc 14,11;
18,14).

Quando anche un uomo non meritasse il disprezzo, pur dovrebbe affezionarvisi con
tutto l’impegno, in virtù dell’amore che deve al suo Dio. E chi non sa, che
la vera dilezione o suppone o impegna l’amante a procurare ad ogni costo la somiglianza
col suo Diletto: Amicitia pares aut accipit, aut facit, ubi inaequalitas est.
Così S. Girolamo in approvazione del detto d’un antico Savio (in cap. 7
Mich.
: Non credete all’amico, non fidatevi del compagno; Mich 7,5).
Quindi è, che essendo il divino Signore il beatissimo oggetto dei nostri affetti,
ed essendo certo per Fede, che vivendo egli in terra in carne mortale, fattosi uomo
per la nostra salute, ha amato oltre ogni credere il disprezzo, fino a saziarsene
come di cibo il più gradito, fino a sommergersi in un mare di vituperi, fino
a divenir l’obbrobrio degli uomini e l’abbiezione della ciurmaglia: infamia degli
uomini, rifiuto del mio popolo
(Sal 22 (21), 7), fino a comparire il più
vile di tutti: disprezzato e reietto dagli uomini (Is 53,3), e piuttosto
un verme che un uomo: io sono verme, non uomo (Sal 22 (21), 7) e un
oggetto di maledizione e d’orrore, e fino a farsi reputare invasato dal demonio,
allorché gli fu detto dai giudei: Tu hai un demonio! (Gv 7,48;
8, 48. 52); come potrà un cristiano pregiarsi d’amar Gesù, se sfugge
il disprezzo, se l’odia, se l’abborrisce, e non anzi s’ ingegna d’ amarlo e di volentieri
accettarlo? Ahime! Se sarebbe pur troppo dissomigliante a Gesù, e in conseguenza
disamorato di lui, chi non amasse, o almeno non procurasse d’amare il disprezzo,
cotanto da lui, benché innocentissimo, amato, sebbene questi non meritasse
d’essere disprezzato; sarà egli conforme a Cristo, chi non ama il disprezzo,
mentre davvero lo merita e per ogni ragione gli si addice? Pur troppo costui si dissomiglia
dai Redentore, e per la vista del suo essere e per la bruttezza de’ suoi peccati:
or se v’aggiunge di più la mostruosa dissomiglianza del disamore al disprezzo
come potrà lusingarsi di amare l’esinanito e vilipeso suo Dio? E se lungi
dal supplire alla prima difformità proveniente dalle sue colpe e malizia,
e d’abolirla, o ripararla per quanto può col correttivo e contrapposto d’un
cuore veramente contrito ed umiliato, e perciò amante del proprio disprezzo
sempre più l’accresce e la fa di peggior condizione, con unirvi una nuova
difformità, qual è l’amore della propria eccellenza e l’odio del vilipendio,
a lui per giustizia dovuto, avremo noi a giudicarlo vero amico di Cristo, da cui
vuol essere per raddoppiato motivo cosi difforme? O buon Gesù, per noi infinitamente
disprezzato nel mondo, infondeteci il vostro lume e createci un nuovo cuore nelle
viscere, prima che siamo citati al terribile vostro tribunale a rendervi conto della
sincerità del nostro amore, perché non siamo ritrovati mancanti di
carità per questo stesso, che non procurammo distruggere la dissomiglianza
da voi (la quale venne a formarsi in noi, grazie ai nostri peccati cagionati dalla
propria superbia ) coli assomigliarci a voi con l’amor della propria abbiezione e
disprezzo.

Che più? Per impegnarci ad amare il disprezzo basta il voler essere veri cristiani.
Egli è certo, che il carattere di sincero cristiano obbliga a vivere collo
spirito dei Redentore, e a farsi una viva immagine di Gesù. Di così
grande verità testimonio d’ogni eccezione maggiore ne sia l’apostolo s. Paolo.
Non contento egli d’essere talmente unito e trasformato in Cristo, fino a poter dire

di non viver più esso, ma bensì di vivere Gesù in lui: non
sono più io che vivo, ma Cristo vive in me
(Gal 12,20), perché
ardeva di desiderio d’acquistare a Dio veri fedeli, tutto si adoperava con uno zelo
indefesso, e si affaticava a questo grande oggetto, di formare Gesù negli
suoi figli spirituali; e qui erano rivolte le sue mire, e qui tendevano le sue premure,
i sudori, le lacrime: figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché
non sia formato Cristo in voi!
(Gal 4,19). Quindi non giudicava di saper
altro in conversando con loro, che Gesù, e Gesù Crocifisso, cioè
Gesù in mezzo gli obbrobri ed i tormenti: io ritenni infatti di non sapere
altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso
(1 Cor
2,2), e con ragione; perché se i cristiani compongono il Corpo di Cristo,
e sono suoi membri (Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la
sua parte
; 1 Cor 12,27), dunque debbono vivere dello spirito di Gesù.
E se i medesimi sono destinati a eternamente regnare con Gesù trionfante in
cielo, debbono dunque in terra portare in fronte l’immagine e la somiglianza con
Cristo umiliato e penante: quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche
predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo
(Rm 8,29).
Or quali sono i tratti, le impressioni e le marche d’ un tale spirito ed immagine
in un uomo, mortale, se non le umiliazioni, i disprezzi, le contraddizioni e le pene?
Perché si formi in noi questa così perfetta conformità con Cristo,
è pur necessario inserire e piantare nei nostri cuori quell’annientamento
che tanto riluce nel Verbo incarnato: spogliò se stesso (Fil
2,7), e quella morte cotanto obbrobriosa di croce a cui si assoggettò facendosi
obbediente fino alla morte, e alla morte di croce
.

Questo è l’esercizio della nostra Fede, di cui vive il giusto: Il giusto
vivrà mediante la fede
(Rom 1,17), aver sempre l’occhio a Gesù
autore e consumatore della fede, il quale non curando onori e piaceri, sostenne la
croce ed abbracciò la confusione: tenendo fisso lo sguardo su Gesù,
autore e perfezionatore della fede. Egli in cambio della gioia che gli era posta
innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia
(Eb 12,2).

Questa è la speranza di un vero fedele, di entrare ora a parte delle umiliazioni
e travagli di Gesù per esser poi partecipe della sua gloria ed esaltamento:
nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché
anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare
(1
Pt
4,13). Se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo (2 Tim
2,12). Questa è la divina carità, che le anime innalza all’unione con
il sommo Bene, che è Gesù, e in conseguenza ne impegna alla sua imitazione:
chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato
(1 Gv 2,6). E tale appunto è l’espressa, intenzione in Cristo: Cristo
patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme (1
Pt
2,21). Dunque se il vivere e l’operare di Gesù di terra, dal primo
istante della sua concezione nel seno di Maria fino allo spirar sulla croce, fu un
intreccio non interrotto di umiliazioni e di pene le più eccessive , un cristiano
che ama, senza dubbio non deve ad altro principalmente aspirare, né procurare
che di umiliarsi a soffrire, rinforzandosi sempre a camminare, ad onta della recalcitrante
natura, per questa strada con Gesù Crocifisso altamente impresso nella mente
e nel cuore: poiché dunque Cristo soffrì nella carne, anche voi
armatevi degli stessi sentimenti
(1 Pt 4,1). Dunque, o bisogna rinunziare
allo spirito di Gesù ed alla sua immagine e somiglianza, e conseguentemente
all’essere di vero cristiano, e perciò alla grazia, alla gloria e a Dio medesimo,
oppure bisogna adoprarsi per acquistare, almeno in qualche grado, l’amore al disprezzo.
E quanto più ci preme di assicurarci il possesso di beni sì eccellenti
e sublimi , e farci tutti di Gesù e in terra e in cielo, più ci conviene
insistere e avanzarci in questa strada, ed aumentar l’amore al proprio disprezzo.

Da tutto ciò si raccoglie quanto sia frivola e mal a proposito la scusa di
coloro, i quali convinti di non amare il disprezzo, anzi di essergli contrari e nemici,
ed all’opposto molto affezionati al proprio onore e grandezza, si difendono con dire:
se si pensasse a Cristo, e a quel che egli operò e soffrì, e generalmente
a quello, che nelle nostre umilianti circostanze ne insegna la fede, i cristiani
non parlerebbero così, e tali non sarebbero i loro, né i nostri sentimenti,
ma si parla e si pensa umanamente, e da uomini quali noi siamo, e secondo i dettami
della ragione e del senso comune. Ahimeh! E a che altro ha da pensare più
di frequente e più principalmente un vero cristiano, che alle verità
da Dio rivelategli colla fede per sua eterna salute? Noi non fissiamo lo sguardo
sulle cose visibili, ma su quelle invisibili
(2 Cor 4,18) E altrove: tenete
sempre in mano lo scudo della fede (Ef 6,16). E dove hanno ad essere i suoi
sguardi più attenti e applicati, se non a quel beatissimo oggetto, da cui
trae la denominazione e l’essere di cristiano, che è lo stesso che dire a
Gesù Cristo?

Egli è pure il gran Maestro propostoci dall’Eterno Padre da ascoltarsi da
noi, e il divino esemplare da imitarsi: questi è il Figlio mio prediletto,
nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo!
(Mt 17,5). E che potrebbero
dire gli idolatri, i turchi, gli ebrei e tutta la razza dei miscredenti? Che essi
parlino e pensino in tal maniera, non è gran fatto, perché loro è
ignota la fede, ignoto è Gesù; sono uomini miserabilissimi, e da tali
pensano e parlano. Ma è ben insoffribile, tal replica in un cristiano, che
in virtù della sua condizione e del gravissimo obbligo contratto con Dio nel
santo battesimo, si è impegnato a saper Gesù ed a rivestirsi del suo
spirito ed a regolarsi con le sue massime.

Quindi è che se a ciò non riflette egli di sovente e non si costituisce
Cristo e la sua Fede quale primario oggetto dei suoi pensieri e sollecitudini, manca
stranamente al suo dovere, e per questo medesimo si rende colpevole e senza scusa.
Al tribunale di Cristo giudice se n’avvedranno. A costoro riuscirà d’estrema
confusione e rammarico il non essersi curati di assomigliarsi a Gesù umiliato
e paziente, per questa stessa cagione, perché applicati a cento e mille leggerezze
e vanità, e soddisfatti di correr dietro all’istinto e alle impressioni basse
e difettosissime della natura, non atteso a Gesù riparatore della stessa natura,
autore della grazia e modello di tutti gli eletti: con che fecero un torto inesplicabile
al loro Signore, e precipitarono se stessi in un baratro di miserie.

Riflettete seriamente, o cristiani, a queste divine verità , ora che siete
in tempo di provvedere santamente a voi medesimi. Se ora trascurate di assomigliarvi
con Gesù oltraggiato e penante, con la tolleranza amorosa delle abbiezioni
e travagli, non vi servirà di scusa dinanzi a Cristo giudice, il non aver
pensato a lui crocifisso frequentemente, perché e potevate e dovevate pensarvi;
e se ogni giorno e tutto il tempo della vostra vita mortale vi fu concesso da Dio
perché di continuo scolpiste in voi nuovi tratti di somiglianza con Cristo,
sempre eravate in dovere di rimirare a questo divino prototipo ed originale, Gesù
in croce per voi, oltre ogni credere disprezzato, avvilito e depresso; e il non averlo
fatto fu vostra colpa e ingratitudine la più mostruosa. E voi massimamente,
che con interni impulsi siete da Dio in singolare maniera invitati all’acquisto della
perfezione cristiana, e voi ancora molto più sacerdoti e religiosi dell’uno
e dell’altro sesso, che in virtù del vostro sublime stato siete in un particolar
impegno e dovere di procurarla, attendete frequentemente a queste rilevanti verità
di Dio, persuadendovi, che senza fare un’offerta e un sacrificio sincero del vostro
onore a quel gran Dio, che sulla croce sacrificò il suo proprio onore per
voi, e senza amare il disprezzo in qualche maniera, non avrete giammai il vero spirito
e la vera somiglianza con Cristo; onde resterete ben lungi da quella perfezione,
a cui il Signore vi ha chiamati, con pericolo di grave danno dell’anima vostra: perciò
applicatevi ben di cuore a studio così importante, e non vi date pace finché
o non abbiate conseguito, o almeno non vi affatichiate per conseguire l’amore al
proprio disprezzo. Si conchiuda adunque e si stringa l’argomento: Se il cristiano
quantunque supponesse di non meritare in verun conto il disprezzo, pur dovrebbe amarlo
per le accennate ragioni; quanto più dovrà amarlo, mentre è
consapevole di averne tutto il merito, e che l’ordine rispettabilissimo della divina
Giustizia lo richiede?

Ma perché un tal amore al proprio disprezzo sia schietto e sincero, non fallace
e di sola apparenza , bisogna amarlo non solo in ispecolagione e in astratto, ma
per rapporto alla pratica, all’ opera e all’ esercizio, conforme al celebre avviso
di S. Giovanni: figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi
fatti e nella verità
(1 Gv 3,18). Del che più a proposito,
e con maggior distinzione si tratterà qui appresso.












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