P. Solazzo C.P. su San Giuseppe Moscati: Difendere la vita e la famiglia

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Esortazione spirituale del Padre passionista Francesco Solazzo in occasione del ritiro di fattisentire.org del 24/22/2019

San Giuseppe Moscati nei tempi del coronavirus: sarà il patrono del 118 e dell’emergenza sanitaria?

SAN GIUSEPPE MOSCATI: DIFENDERE LA VITA E LA FAMIGLIA, ANCHE NELLA PERSECUZIONE

Introduzione

Giuseppe Moscati nasce a Benevento il 25 Luglio 1880 da Rosa de Luca e Francesco, magistrato, che in quel periodo era stato promosso a presidente del Tribunale di quella città. Sei giorni dopo, il 31 Luglio, riceve il Battesimo con i nomi di Giuseppe, Carlo, Maria, Alfonso. Il Battesimo è celebrato in casa e non in chiesa forse a causa del lutto per la piccola Maria, la sorellina di quattro anni, morta solo due mesi e mezzo avanti.

Nel 1881 Francesco è promosso consigliere di Corte d’Appello ad Ancona, e qui si trasferisce l’intera famiglia. Uno dei primi ricordi di Giuseppe è legato a questo periodo, quando nel 1883 è portato in pellegrinaggio a Loreto, alla Santa Casa.

Il 28 Luglio dell’ ‘83 la famiglia è scossa da un grave lutto: in questa data, infatti, accade il terremoto di Ischia che rade al suolo Casamicciola, dove vivevano Domenico e Alfonso, fratelli di Francesco e zii paterni di Giuseppe. Nel 1884 Francesco Moscati è trasferito alla Corte d’Appello di Napoli. Dopo aver cambiato due appartamenti si stabiliscono in maniera definitiva in Via Cisterna dell’Olio, 10. In questa città e in questa casa Giuseppe crescerà e vivrà fino al momento della sua morte.

Nel 1897, a diciassette anni, Giuseppe consegue la maturità classica e si iscrive alla Facoltà di Medicina.
Il 21 Dicembre di quello stesso anno Francesco Moscati, padre di Giuseppe, muore dopo un malore.
Ad Agosto del 1903 si laurea in Medicina e nello stesso anno vince il concorso come aiuto straordinario agli Ospedali Riuniti.

Il 2 Giugno del 1904 muore il fratello Alberto presso il convento dei Fatebenefratelli, dove era stato ricoverato (l’esperienza accanto al fratello è decisiva per Giuseppe).

Nel 1911 diviene aiuto ordinario negli Ospedali Riuniti e socio aggregato alla Regia Accademia medico-chirurgica. In quello stesso anno prende parte ad un convegno internazionale a Vienna, dove viene apprezzato e fatto segno di stima dai colleghi d’oltralpe, nonostante fosse ancora un giovane medico. Vince anche il concorso per il servizio di laboratorio nell’ospedale Cotugno e diviene medico condotto.

Fin dalla laurea non smette mai la ricerca scientifica, infatti diviene uno dei luminari di chimica fisiologica e non smette mai l’insegnamento ai futuri medici. Dal 1911 al ‘23, infatti, insegna presso gli Ospedali degli Incurabili. (In quell’epoca, e fino alla riforma Gentile, la medicina non si insegnava solo nelle facoltà universitarie, ma, in città come Napoli, anche presso gli ospedali, come gli Incurabili: qui i docenti erano costantemente seguiti dagli studenti che, dunque, non separavano mai la didattica dalla pratica medica.)

Il 25 Novembre 1914 muore Rosa, la madre di Giuseppe e resta solo in casa insieme alla sorella Nina, che gli sarà sempre accanto e gli sopravvivrà, dando testimonianza ai processi canonici. Durante la Prima Guerra Mondiale fa domanda per collaborare come medico e vien fatto direttore del reparto militare.

Tra il ‘16 e il ‘18 supplisce al prof. Malerba alla cattedra di chimica fisiologica e fra il ‘17 e il ‘20 supplisce Bottazzi per chimica clinica.

Nel 1919 diventa primario alla III Sala dell’Ospedale degli Incurabili e in quello stesso anno rinunzia alla cattedra universitaria di chimica fisiologica che gli era stata offerta alla morte di Malerba, proprio per restare agli Incurabili e non rinunziare alla pratica medica, né separarsi dai suoi allievi.

Nel 1923 compie un viaggio a Edimburgo, in Scozia, per partecipare al Congresso Internazionale di Fisiologia: durante il viaggio visita Roma, Torino, Parigi, Londra e, al ritorno, lascia i colleghi per deviare verso Lourdes.

Muore il 12 Aprile del 1927, a soli 47 anni. il 16 Novembre del 1930 i resti sono traslati al Gesù Nuovo (data poi scelta come memoria liturgica a livello locale – è anche il giorno della Beatificazione, nel 1977).

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Le origini e l’esempio del padre

Fino ad ora abbiamo visto un po’ una secca biografia di San Giuseppe Moscati, che però non dice assolutamente nulla di come sia diventato santo.

I Santi, sappiamo, non nascono dal nulla: se erano dei non credenti è perché hanno ricevuto l’annuncio da qualcuno; se sono battezzati da bambini, è perché quello stesso annuncio lo hanno ricevuto da qualcuno molto vicino. Giuseppe Moscati nasce, infatti, in una famiglia profondamente cattolica e, fin da bambino, ha sotto gli occhi gli esempi dei suoi genitori che conducono una vita pia e trasmettono con le parole e con gli esempi la fede cattolica. In particolare, è il papà, Francesco Moscati, che è il modello su cui si forma Giuseppe.

Francesco Moscati è un magistrato, dunque un uomo di legge che vive in prima persona il travaglio e la burrasca dell’unità d’Italia. Questa, sappiamo tutti, fu perseguita e concretizzata dalla massoneria: massoni erano i Savoia, massone era Cavour, massone era Garibaldi, la carboneria di Mazzini era un ramo collaterale della massoneria… ecc.. È chiaro, dunque, che in quegli anni immediatamente successivi all’unità, la massoneria era trionfante e cercava la rivincita: chi non si piegava ad essa rischiava persecuzioni di vario genere e contraccolpi alla carriera. Francesco vive in questa situazione, quando è chiamato a presiedere il tribunale di Benevento, città dove nasce Giuseppe. Qui si faceva sentire ancora più forte l’anticattolicesimo e la massoneria perché Benevento era stato da sempre un possedimento pontificio all’interno dei territori borbonici. (Si ricordi che nel 1881 alcuni giovani facinorosi, impregnati dalle idee anticlericali veicolate dalla massoneria, cercarono di gettare nel Tevere, durante la sua traslazione a S. Lorenzo al Verano, le spoglie del Beato Pio IX.)

Francesco Moscati non si lascia per nulla intimorire da questo clima: vive coerentemente, testimoniandola in casa come in pubblico, in chiesa come in tribunale, la sua fede cattolica. È proprio la fortezza nella fede che gli dà quella integrità di coscienza che viene ammirata e stimata dai colleghi; è proprio la sua fede cattolica, vissuta coerentemente e senza tentennamenti, che lo porta a non accontentarsi e dare sempre il massimo, dunque a eccellere nel lavoro.

Per le sue eccezionali doti e la sua grande preparazione, è promosso nel 1881 alla Corte d’Appello di Ancona (anche questa città faceva parte dello Stato Pontificio; anche in questa città, dunque, si respirava un’atmosfera di grande ostilità verso il Cattolicesimo e prendevano sempre più piede le idee socialiste).

Qui ad Ancona avviene un episodio particolare quando Giuseppe ha quattro anni. Mentre Francesco e Rosa si recano alla S. Messa domenicale insieme ai loro figlioletti, alcuni socialisti seduti per strada cominciano a prenderlo di mira proprio per la sua fede che, in quel momento, si concretizzava nell’andare alla S. Messa. Il magistrato non si lascia intimorire e, dopo aver lasciato i figli più piccoli alla moglie, tenendo per mano il piccolo Giuseppe, si avvicina loro affrontandoli a viso aperto affermando che è proprio la sua fede a renderlo integro e capace nel suo ufficio e ridicolizzando il loro ateismo. Questi uomini, conoscendo bene la preparazione e l’integrità del magistrato, ammutoliscono. Dopo essersi allontanati, il piccolo Giuseppe fa un appunto al padre con una domanda: «Ma perché quell’uomo parlava con cattiveria ma aveva gli occhi buoni?»; una considerazione che stupisce il padre e gli fa comprendere la capacità di penetrazione dell’anima che aveva Giuseppe.

Nel 1884 Francesco Moscati è trasferito alla Corte d’Appello di Napoli. Una delle prime amicizie che stringe qui è con l’avvocato Bartolo Longo, il fondatore del Santuario di Pompei. È significativo vedere come l’amicizia non nasca, come potrebbe suggerire la professione dei due uomini, dal comune ambiente lavorativo frequentato, bensì dal fatto che Bartolo Longo nota come tutta la famiglia stia a Messa e il modo di come tutti seguano la celebrazione. È un’amicizia che durerà tutta la vita e che sarà anche del figlio Giuseppe, il quale, quando sarà professore, porterà molte volte i suoi allievi al Santuario della Vergine del Rosario in pellegrinaggio.

Questo dunque è l’ambiente familiare in cui nasce e cresce Giuseppe Moscati.

La vocazione di Giuseppe

La famiglia Moscati aveva una lunga tradizione nell’ambito giuridico: gli antenati di Giuseppe erano, per la maggior parte, avvocati, magistrati o notai. Francesco, però, non preclude nessuna via ai figli: per lui l’importante è che facciano la volontà di Dio. Lo stesso Francesco, da giovane, si mise in ascolto della divina Volontà: dopo la laurea si pose la domanda se la sua strada non fosse quella della consacrazione religiosa. Si consultò dunque col redentorista P. Emanuele Ribera (il quale aveva anche guidato Bartolo Longo ai primi tempi, subito dopo la conversione e quando poi cominciò a pensare alla fondazione del Santuario di Pompei), il quale gli disse: «Il Signore non vuole che siate religioso: sarete un buon magistrato». Francesco, dunque, obbedì alla voce di Dio che si manifestava attraverso il consiglio del sacerdote. Egli, quindi, che aveva vissuto in prima persona questa esperienza del discernimento, lasciò che anche i suoi figli potessero seguire la strada che Dio aveva stabilito per loro, senza mai creare ostacoli.

La vocazione di Giuseppe verso la medicina nacque proprio da un dialogo col padre. Sul far della sera padre e figlio si trovano sul terrazzo di casa a parlare e il padre mostra al ragazzo l’Ospedale degli Incurabili, visibile da casa: «Guarda, Peppino, vedi là in fondo, dietro la cupola del Gesù Nuovo, quell’edificio bianco? È l’Ospedale degli Incurabili. Pensa quanta sofferenza tra quelle mura!». Poi, dopo un po’, continua: «Ma il dolore viene lenito con i rimedi che l’uomo con la ricerca ha trovato e, dove questi non possono più nulla, con la pietà cristiana. […] Il dolore è vinto perché il Medico è venuto a porre rimedio. La morte è stata vinta». Questa considerazione di papà Francesco sulla sofferenza e sulla realtà salvifica della Morte e Risurrezione di Cristo, spinge Giuseppe verso la scelta della Facoltà di Medicina.

C’è però un’altra vicenda che fa decidere Giuseppe per l’arte medica: quanto accade al fratello Alberto, il secondogenito. Questi aveva fatto di tutto per intraprendere la carriera militare ed entrare nell’Accademia Militare di Torino. Nel 1892, durante una parata, il cavallo si imbizzarrisce e Alberto cade a terra subendo un forte trauma cranico che gli causa epilessia. Senza dire nulla, per non dispiacere ai genitori, Alberto manda una lettera dicendo che si faceva religioso ed entrava in convento. Col tempo, però, le condizioni si aggravano ed è costretto a tornare a casa. I genitori rimasero meravigliati della decisione del figlio e ancor di più quando spedì il biglietto con la notizia del ritorno. Quando Alberto giunge a casa accompagnato da un amico, scoprono l’amara verità.

Tutti a casa si prendono cura di Alberto ed in particolare Peppino passa lunghe ore accanto al fratello, anche quando le crisi durano interi giorni.

Il successo scolastico e accademico

Nel 1897 Giuseppe consegue la maturità classica e si iscrive alla Facoltà di Medicina. Siccome la famiglia Moscati, come avevamo detto, era di tradizione giuridica, i genitori restano sorpresi dalla decisione del figlio: il padre però accetta volentieri la sua volontà, mentre la madre ha un po’ paura della sofferenza con cui verrà a contatto il figlio. Giuseppe la tranquillizza, ma la mamma sa che il figlio si farà martire per i suoi pazienti!

Possiamo ben dire che già allora Giuseppe aveva in mente che tipo di medico sarebbe stato e voleva che i suoi poveri pazienti potessero avere il meglio. Studia a fondo ogni materia e mette a frutto ogni sua capacità per riuscire, pur senza mai vantarsi e prevalere sugli altri, tanto che, durante le lezioni, quando i professori facevano delle domande, egli, pur conoscendo le risposte, taceva per non mettersi in mostra. I suoi compagni, d’altra parte, pur sapendo ciò, non erano invidiosi perché Giuseppe sapeva essere un buon amico e aiutare disinteressatamente gli altri.

Giuseppe ha successo negli studi ed ha successo nella ricerca scientifica, in cui diviene un importante nome negli studi di chimica fisiologica. Ciò che lo spinge a eccellere e a superare costantemente se stesso è l’Amore di Cristo (“Charitas Christi urget nos”, cioè “L’Amore di Cristo ci spinge” [2Cor 5,14], insegna San Paolo). E lui si lascia guidare da questo Amore, perché il suo primo ed ultimo intento non è solo quello di curare i corpi, ma di portare tutti a Cristo. Sempre, quando visitava i malati, se erano persone distanti dalla fede, li spingeva alla preghiera (in particolare del Rosario) e ai Sacramenti e alla S. Messa.

Tutto questo Giuseppe lo portava avanti in un ambiente ostile: come il padre, Francesco Moscati, si era trovato a operare in mezzo ai rigurgiti anticattolici della massoneria, così Giuseppe si trova a fare il medico in un ambiente fortemente caratterizzato dal materialismo. I luminari dell’epoca, che sono anche i suoi professori, considerano la vita come semplice movimento di sostanze chimiche che formano cellule e tessuti del corpo. Giuseppe sa che non è così, che c’è un’anima e che c’è Dio che ha fatto sia l’anima sia il corpo. Qualcuno che non lo conosce bene resta meravigliato della sua profonda fede cattolica, ma chi lo conosce sa che è proprio quella fede che lo porta ad eccellere nella scienza e nella cura. Giuseppe, con la sua grande preparazione e la sua grande capacità diagnostica, mette tutti a tacere e si guadagna la stima dei docenti prima e dei colleghi (specialmente dei più anziani) poi e l’affetto e la stima dei pazienti.

Nel 1914 accade un fatto: c’è un paziente che nessuno vuole curare perché ha le piaghe che emanano cattivo odore: i parenti cominciano a protestare e Giuseppe è attirato da questo vociare, pioché considera inappropriato quello schiamazzo in un ospedale. Quando viene a conoscenza della situazione, lui tesso prende i medicamenti e medica il giovane. Solo dopo che il professore ha cominciato, si fanno avanti anche gli altri. Un medico, suo allievo, commenta: «Che uomo, che filantropo!». Il padre del ragazzo replica: «Dotto’, lei non ha capito niente. Altro che filantro-coso, adesso sembra che mio figlio soffra di meno. Ha chiesto alla madre una corona del rosario. Quell’uomo ha la carità nel cuore!».

Giuseppe Moscati si prende cura dei corpi, ma perché vuole portare i cuori a Dio. come medico, infatti, è consapevole dei limiti della medicina, ma come medico credente sa che a Dio importa l’anima al di sopra di ogni altra cosa. Nel viaggio di ritorno dal Congresso a Edimburgo, come abbiamo già accennato, fa tappa a Lourdes: qui assiste a tutti i riti ed anche alla processione eucaristica che descrive in una lettera ai famigliari e scrive: «E l’ostia passa silenziosa. Nessuna guarigione! Iddio che può in un istante ridare vita, che è onnipotente, si volge ai cuori, alle anime, le inonda di sempre maggiore rassegnazione».

Se qualcuno può ancora pensare che la rassegnazione sia qualcosa di negativo, allora sbaglia, giacché S. Giuseppe Moscati si riferisce alla rassegnazione cristiana: un aggettivo, si dirà, ma che cambia tutto. La rassegnazione cristiana è il totale abbandono alla Volontà Divina, che è una volontà di vita e che porta alla vita, se è vero, come è vero, che Gesù Cristo è risuscitato dalla morte. Lo sapeva bene Moscati che, nella sala delle autopsie, aveva fatto appendere un crocifisso e sotto vi aveva posto la scritta: “Ero mors tua, o mors! (Sarò la tua morte, o morte).

Amante dell’arte e della bellezza

Nel 1919 a Napoli si discuteva sul progetto del nuovo piano regolatore: Giuseppe Moscati aveva intuito i pericoli (che poi si realizzarono) per la città; allora prese carta e penna per far sentire la sua voce anche in quest’ambito: «Non il terremoto, non il Vesuvio distruggeranno Napoli, scrive, ma i napoletani. Quel poco, residuato intatto delle incantevoli pendici e dei colli, alla follia costruttiva di mercanti, scomparirà tra breve»; e suggeriva piuttosto di migliorare con strade, tunnel e altri trasporti, le comunicazioni tra la città e il territorio circostante, invece di soffocare la città con nuove costruzioni.

Giuseppe Moscati amava l’arte e la bellezza che intendeva come parte integrante della vita di un cristiano. Si restava stupiti, stando alle testimonianze, quando lo si ascoltava parlare di arte con la stessa naturalezza e profondità di come parlava della fede o di medicina: non era raro che portasse i suoi studenti in qualche chiesa o accompagnasse colleghi in visita in giro per Napoli, illustrandone le architetture e le varie bellezze con competenza.

La bellezza, infatti, per il cristiano, non è qualcosa di marginale e superfluo, poiché essa è un attributo fra i più importanti di Dio stesso: essa non è assolutamente separabile dalla Bontà e dalla Verità. Ecco perché nella vita di San Giuseppe Moscati noi vediamo rifulgere, strettamente intrecciati fra loro, l’amore per ciò che è vero, ciò che è buono e ciò che è bello.

La spiritualità di San Giuseppe Moscati

Sulla spiritualità di San Giuseppe Moscati non si finirebbe mai di scrivere; e tanti, molto più preparati di me, ne hanno sicuramente scritto. Il primo abbozzo che descrive la sua spiritualità è contenuta nella frase che il Card. Ascalesi disse ai familiari quando visitò la salma nella camera ardente: «Il professore non apparteneva a voi, ma alla Chiesa. Non quelli di cui ha sanato i corpi, ma quelli che ha salvato nell’anima gli sono andati incontro». La fede vissuta e creduta ha fatto sì che egli non appartenesse a questi o a quegli, ma solo a Gesù Cristo, al suo corpo mistico che è la Chiesa; e la Chiesa, che ha sempre servito attraverso il corpo ammalato dei suoi pazienti e di tutti coloro che gli si fecero vicini (in particolare i suoi studenti), gli è venuta incontro nella sua parte trionfante.

Giuseppe Moscati è un santo mariano (infatti non ci può essere assolutamente nessuno che possa farsi santo senza Maria: senza di Maria, cantavano i nostri nonni, salvare non si può). È mariano perché amava la Madonna e La pregava: ne sono testimonianza gli innumerevoli pellegrinaggi a Pompei. Ma non solo per questo. Era mariano perché ha imitato Maria nella fede e nella vita.

Ci sono due versetti nella Bibbia che compendiano la spiritualità di Maria: il 39 e il 40 del primo capitolo di Luca: «In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta» [Lc 1,39-40; è la nuova traduzione CEI 2008].

In quei giorni. Sono i giorni in cui Maria ha ricevuto l’annuncio dall’Arcangelo Gabriele: il tempo in cui ha ricevuto e accolto la sua vocazione di diventare la Madre di Dio fatto uomo; i giorni in cui Maria ha detto “Sì” al Signore.

Maria si alzò. Il testo greco dice: “Anàstasa dé María”; usa, cioè, lo stesso verbo della risurrezione. Maria, che è la Tutta-Santa, Immacolata fin dal concepimento, anche Lei fa esperienza della Risurrezione. La Risurrezione consiste in questo: Dio chiama e Maria, con la sua libera volontà, dice sì. Mentre Dio chiama all’esistenza (creazione) senza chiedere il consenso alla creatura, all’esistenza di grazia (donata per mezzo della Redenzione), invece, chiama interpellando la libertà della creatura.

E andò in fretta. Come Dio non tarda ad ascoltare e si mostra sollecito alle preghiere di chi Lo invoca, (cfr. Lc 18,8), così Maria è sollecita nel seguire la strada che Dio Le ha indicato.

Verso la regione montuosa. Il monte, lungo tutta la storia raccontata dalla Bibbia, è il luogo privilegiato della manifestazione di Dio e il luogo dell’incontro tra Dio e l’uomo (Dio si manifesta a Mosè sull’Oreb e qui dà anche la Sua Legge; Elia si ritira sul monte Carmelo; il Tempio di Dio e sul monte Sion; Gesù si trasfigura sul Tabor…). Maria, dunque, dopo aver detto sì ed essersi incamminata nella sua vocazione, anela all’incontro con Dio.

In una città di Giuda. L’origine del nome “Giuda” sta nel verbo ebraico che significa “lodare (Dio)”. È, dunque, la “città della lode di Dio” il luogo dove Ella si dirige; l’espressione dunque allude a Gerusalemme: la città del monte Sion e del Tempio del Signore. (Non è un caso che Gerusalemme sia la capitale di Giuda e sia la tribù di Giuda, come dice Gesù stesso (cfr. Gv 4,22) che conserva il vero culto a Dio. L’intera vita di Maria si fa culto a Dio in “spirito e verità”.

Entrata nella casa di Zaccaria. Il nome “Zaccaria” significa “memoria di Dio”. Quando nella Bibbia si dice che “Dio ricorda” non è perché Egli nel frattempo abbia dimenticato qualcosa, ma perché è giunto il tempo stabilito dall’Altissimo, la c.d. “pienezza dei tempi”, cioè il tempo della salvezza. Maria, dunque, col suo Sì entra nella pienezza della salvezza stabilita da Dio in Suo favore.

Salutò Elisabetta. Il nome “Elisabetta” significa “giuramento di Dio”. Il pensiero va quasi spontaneamente all’inno del “Magnificat”, quando la Vergine, proprio davanti ad Elisabetta, richiama le promesse di Dio dicendo: «Ha soccorso Israele, suo servo, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza per sempre». E dobbiamo notare una cosa importante: il compimento dell’opera di Dio non sta esclusivamente nella Sua azione onnipotente, ma anche nel sì che il Creatore attende dalla sua creatura.

La risposta positiva alla chiamata di Dio (che, prima di ogni altra cosa, è chiamata alla santità) è un ingresso nella vita nuova della Risurrezione, che rende Maria sollecita verso l’incontro con Dio (incontro che si riflette nell’incontro col prossimo, con la cugina Elisabetta) e La introduce nel vero culto a Dio, fatto in “spirito e verità”, il culto della Chiesa. Ed attraverso la comunione con Dio e il culto spirituale, si realizzano nella vita di Maria le promesse di Dio

Guardando con questa lente alla vita di San Giuseppe Moscati, non possiamo fare a meno di notare lo stesso percorso: egli, dicendo sì alla sua particolare vocazione, si mette in cammino con sollecitudine verso l’incontro con Dio, che si manifesta concretamente nell’incontro e nella sollecitudine verso il corpo ammalato del prossimo. Realizza e mette a frutto così il culto in spirito e verità che attraverso la Chiesa è tributato a Dio (ricordando ancora le parole del Card. Ascalesi secondo cui S. Giuseppe Moscati appartiene alla Chiesa intera) e fa della sua vita la realizzazione della promessa di salvezza di Dio.

Omelia nella S. Messa – Dominica XXIV et ultima post Pentecoste (24 Novembre 2019) – Vangelo della S. Messa (Mt 24,15-35)

In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli: Quando dunque vedrete l’abominio della desolazione, di cui parlò il profeta Daniele, stare nel luogo santo – chi legge comprenda –, allora quelli che sono in Giudea fuggano ai monti, chi si trova sulla terrazza non scenda a prendere la roba di casa, e chi si trova nel campo non torni indietro a prendersi il mantello. Guai alle donne incinte e a quelle che allatteranno in quei giorni. Pregate perché la vostra fuga non accada d’inverno o di sabato. Poiché vi sarà allora una tribolazione grande, quale mai avvenne dall’inizio del mondo fino a ora, né mai più ci sarà. E se quei giorni non fossero abbreviati, nessun vivente si salverebbe; ma a causa degli eletti quei giorni saranno abbreviati. Allora se qualcuno vi dirà: Ecco, il Cristo è qui, o: È là, non ci credete. Sorgeranno infatti falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi portenti e miracoli, così da indurre in errore, se possibile, anche gli eletti. Ecco, io ve l’ho predetto. Se dunque vi diranno: Ecco, è nel deserto, non ci andate; o: È in casa, non ci credete. Come la folgore viene da oriente e brilla fino a occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Dovunque sarà il cadavere, ivi si raduneranno gli avvoltoi. Subito dopo la tribolazione di quei giorni, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, gli astri cadranno dal cielo e le potenze dei cieli saranno sconvolte. Allora comparirà nel cielo il segno del Figlio dell’uomo e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra, e vedranno il Figlio dell’uomo venire sopra le nubi del cielo con grande potenza e gloria. Egli manderà i suoi angeli con una grande tromba e raduneranno tutti i suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all’altro dei cieli. Dal fico poi imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi, quando vedrete tutte queste cose, sappiate che Egli è proprio alle porte. In verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo accada. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.

 

Jesus Christus laudetur.

Parole terribili, quelle che Gesù ci consegna nel Vangelo di quest’ultima domenica dell’anno liturgico. Le parole tramandateci dall’Evangelista Matteo quasi non lasciano scampo: Gesù sta parlando della fine dei tempi, su cosa succederà poco prima del giudizio universale e, nonostante verso la fine del discorso ci inviti ad osservare attentamente i segni dei tempi per comprendere quando tutto questo starà per accadere, può succedere che il risultato sia che nel cuore dei fedeli si crei un certo rilassamento. C’è il rischio che finiamo per dire: “Il sole non si è oscurato e non sono cadute le stelle, dunque per ora possiamo stare tranquilli!”. L’interpretazione di queste parole data dai Padri, fin dai primi secoli del Cristianesimo, è sempre stata molteplice, proprio per questo motivo, cioè per contrastare il torpore delle anime. Certamente Gesù sta parlando della fine del mondo, ma anche della distruzione di Gerusalemme, che è un avvenimento ormai del passato e in cui il mondo non è finito. Ma Gesù sta parlando anche della storia del mondo, quella con i suoi c.d. “corsi e ricorsi” che sempre si ripetono. In questo senso, allora, le parole di Gesù hanno sempre qualcosa da dirci, anche se non è ancora la fine del mondo.

Il centro di questo brano, allora, diventa proprio l’ultima frase di Gesù: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno». Allora quelle immagini del sole che si oscura e delle stelle che cadono, non sono soltanto descrizioni degli ultimi eventi cosmici, ma anche di ciò che succede continuamente nella storia dell’uomo, ciclicamente interessata da guerre e rivoluzioni o da catastrofi che fanno sparire i punti di riferimento che abbiamo davanti gli occhi e che ci sembrano immutabili, ma che immutabili non sono affatto, perché non sono da Dio. Usanze, leggi, tradizioni, istituzioni sociali che sembrano granitiche e che, invece, possiamo vedere spazzate via come un nulla dagli eventi storici. In tutto questo trambusto si erge un solo segno e punto di riferimento, perché è il solo che viene da Dio: il Segno del Figlio dell’uomo, ossia la Croce.

Avete presente il motto dei Certosini? “Stat Crux, dum volvitur orbis”, cioè “Sta la Croce (cioè che è ferma, assolutamente ferma) e attorno vi gira il mondo (coi suoi innumerevoli mutamenti)”. La Croce è il faro di navigazione per il cristiano, baluardo e vessillo in cui riconoscersi. La Croce è il discrimine, il termine di paragone che distingue la predicazione di Cristo e dei suoi veri discepoli dalla predicazione dei falsi cristi, dei falsi discepoli di Cristo: chi predica il falso si fermerà ben prima della Croce, prima della prova, ma chi predica il vero percorrerà fino in fondo la Via della Croce.

Negli stravolgimenti della storia, che da un lato sono sempre diversi, ma dall’altro tutti uguali perché tutti si oppongono a Cristo Gesù, noi cristiani siamo chiamati a divenire i vessilliferi della Croce di Cristo, cioè i testimoni della sua Passione, Morte e Risurrezione; testimoni, cioè martiri. Un concetto che, se non è molto chiaro in questo passo di Matteo, è invece più chiaro nel passo parallelo di Luca (cfr. Lc 21,8 e ss.). Lì Gesù dice: «Ma prima di tutto questo, metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno […]. Questo vi darà occasione di rendere testimonianza». Perché dov’è il Maestro, là sono anche i suoi discepoli; la strada percorsa da Maestro sarà anche la strada dei suoi discepoli.

In questo giorno, dunque, chiediamo a Maria di restare, come Lei e con Lei, legati strettamente alla Croce di Cristo, di perseverare nella via del Calvario, per veder salve le nostre vite, quando il Signore Gesù arriverà nel giorno del nostro giudizio particolare. Preghiamo la Vergine Santissima perché, in mezzo all’abominio della desolazione che ci offre continuamente il mondo, noi sappiamo fuggire sui monti della Giudea (cioè verso quel culto in spirito e verità che la Chiesa realizza nella celebrazione della Santa Eucaristia); che non torniamo con nostalgia al nostro passato di peccato e al mondo che ce lo offre con interminabili allettamenti; che non nutriamo speranze terrene per un futuro incerto, ma che sappiamo sempre riconoscere Cristo, la certa speranza della sua Croce e aver salve le nostre anime.

Jesu Christi Passio sit semper in cordibus nostris.