Vita della Beata Imelda Lambertini, cap. I

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P. TIMOTEO
CENTI O. P.

LA BEATA IMELDA LAMBERTINI

VERGINE DOMENICANA

CON STUDIO CRITICO E DOCUMENTI INEDITI









I

LA FAMIGLIA LAMBERTINI

Non è raro il caso
di veder sbocciare le rose della santità fra i rovi e le spine, ma di solito
il Signore prepara il terreno adatto per questi fiori di predilezione.

IMELDA nacque a Bologna da nobili genitori, ammirabili anche per onestà e
probità di vita. Essi furono, secondo la tradizione, Egano Lambertini e Castora
(o Castoria) Galluzzi. Quando si dice tradizione non significa che la cosa non è
probabile, oppure che la designazione sia stata decisa a casaccio; ma intendiamo
affermare che purtroppo documenti molto antichi che ci assicurino in modo definitivo,
sino ad oggi, non li abbiamo.

I primi scrittori, una volta detto che la fanciulla dodicenne cui apparve l’Ostia
miracolosa si chiamava Suor Imelda, non andarono più oltre. Solo verso la
fine del secolo XVI un certo monaco, Don Celso di Sassoferrato, dopo avere certamente
frugato nelle antiche carte della eccellentissima Casa Lambertini, allora reperibili
e gelosamente custodite, scrisse per primo che il padre della fanciulla fu Egano
Lambertini, famoso e nobile cavaliere, notissimo nella Storia di Bologna, definito
in una medaglia coniata in suo onore “humanitate plenus”, pieno cioè
di quella intraducibile “humanitas”, che può significare benevolenza,
tatto, nobiltà di animo (1).

D’altra parte non bisogna dimenticare che la tradizione è confermata da un
documento scritto alla fine del sec. XVI, ma anteriore come contenuto: una memoria
proveniente dal Monastero di Valdipietra, che chiama il babbo di Imelda “Cavaliere
e speron d’oro” senza dircene il nome.

In seguito, altri ricercatori si avvidero che il Cavaliere Egano, rimasto vedovo,
era convolato a seconde nozze; e siccome Suor Imelda è morta undicenne nel
1333, si concluse che ella non poteva appartenere alla prima moglie Misina (ossia
Tommasina) di Tommaso Guastavillani (Ü prima del Giugno 1315), ma alla seconda, cioè
a Castora Galluzzi (2).

Ambedue le spose di Egano provengono da nobili famiglie bolognesi, e se ne potrà
convincere chiunque abbia voglia di sfogliare il Dolfi, o altri cultori di araldica
felsinea. Tanto la famiglia Lambertini che quella Guastavillani – come del resto
quasi tutta la nobiltà di quei tempi – vanno orgogliose di persone celebri
sia nel maneggio degli affari politici, sia nella scienza e nella santità.

Appartenne al casato Lambertini – tanto per ricordare qualcuno – quell’Ugolino di
Lambertino Caprezzo (o Capretto), che fu uno dei fondatori dell’Ordine Cavalleresco
di S. Maria Gloriosa, volgarmente detto dei Frati Gaudenti: i poveri frati che più
degli altri hanno sperimentato le scudisciate di Dante (3).

Nella storia degli Ordini religiosi è ricordata Tommasina Lambertini, sorella
di Egano e vedova di Rinieri Caccianemici, che nel 1324 fondò il Monastero
delle Convertite in S. Tommaso di Porta Ravegnana, dove ella stessa visse e morì
in concetto di santa (4).

All’Ordine Domenicano la Casa Lambertini dette illustri figli: P. Guglielmo Lambertini,
Priore del Convento di Milano alla fine del duecento e, più tardi, il frate
omonimo che fu zio della nostra Beata (5).

Anche nella famiglia Galluzzi troviamo il celebre P. Egidio Galluzzi che fu poi Arcivescovo
di Creta, probabilmente anch’egli zio di Imelda.

Essendo la Famiglia Lambertini una delle più cospicue di Bologna, ebbe a risentire
anche essa delle mutevoli vicende umane, giacchè è noto che sulle alte
cime scherzano di preferenza le folgori. Se il padre di Imelda ebbe in vita ricchezze
e onori, il figlio Guido dovè sopportare i dolori della prigionia proprio
mentre Imelda era, come vedremo, nel Monastero di Valdipietra; per non parlare del
pronipote di Imelda Aldraghetto che nel 1412 avrà mozzata la testa (6).

Nemmeno vogliamo far credere che tutti i Lambertini siano stati farina da ostie,
neanche per provare – come faceva il Mazzoni – “quanto sia grande la differenza
fra l’antica nobiltà e quella che vive oggi giorno” (7), convinti come
siamo che la parabola evangelica del buon grano e della zizzania. sempre vera e attuale.

Infatti i libri neri dell’Archivio criminale di Bologna parlano anche dei Lambertini
e ci raccontano, scandali e ribalderie che non vogliamo trascrivere.

Cose non del tutto lodevoli, ma facilmente comprensibili, avuto riguardo al sesso
debole, si narrano intorno alle dame o damigelle Lambertini, le quali preferivano
pagare le multe e trasgredire i severi Statutì del Comune di Bologna, piuttosto
che rinunziare alla moda.

Donna Pina, sposa di Guido Lambertini (figlia della prima moglie di Egano e perciò
fratellastro di Imelda), ebbe una contravvenzione per essersi messo in testa un chiassoso
cappellino nell’andare a S. Maria in Monte. Un’altra signora Lambertini, alcuni anni
più tardi, fu sorpresa dall’Ufficiale delle Corone presso la propria casa,
posta nella parrocchia di S. Cataldo, vestita d’una clamide su cui era una abbottonatura
di perle non regolamentari e coi cappuccio di forma eccentrica, non consentita dagli
Statuti bolognesi. Nè si dette per vinta, perchè dopo pochi giorni
andò in Chiesa di S. Pietro con lo stesso cappuccio e fu nuovamente multata
di certa somma che il marito pensò a pagare: vanità della donna, responsabilità
dell’uomo! (8).

Per fortuna, a quei tempi, i gentiluomini e le gentildonne, seguendo il consiglio
evangelico, che scaturisce dalla parabola del “fattore infedele” supplivano
ai peccati di vanità con numerose opere di misericordia. Molte Chiese, monasteri
e ospedali ebbero a sperimentare la munificenza dei Lambertini, non escluso il Convento
di S. Domenico di Bologna, dove c’erano le antiche arche sepolcrali degli avi di
Imelda (9).

Le benemerenze dei Lambertini verso i Padri Carmelitani meritarono un solenne attestato
di riconoscenza da parte del P. Provinciale, un certo fra Paliamide, che il 24 giugno
1338 concedeva al Sig. Egano, alla moglie ed ai figli l’affiliazione, ossia la partecipazione
ai benefici spirituali dell’Ordine. Una simile concessione era stata fatta nel 1315,
forse in occasione del Capitolo Generale che fu celebrato a Bologna, dal Generale
stesso dei Domenicani, fra Berengario di Landorra (10).

La mamma di Imelda, Castora Galluzzi, fu una dama assai devota e piena di sollecitudine
per il culto divino; particolare notevole del suo testamento è lo zelo nell’onorare
la SS.ma Eucarestia con numerose offerte di ceri e lampade destinate ad accendersi
dopo l’Elevazione, “ad illuminandum Corpus Christi” come allora si diceva.
Ma c’è ancora dì più, in quanto ella vuole addirittura un altare
per onorare il Corpo ed il Sangue di Gesù nella Chiesa. dei Carmelitani di
S. Martino, indizio quest’ultimo, di una devozione non comune (11).

La città dove vide la luce la nostra Beata è quella meravigliosa Bologna,
celebre allora per il suo Studio, che richiamava studenti ad ogni parte d’Europa:
città brulicante di monasteri, di chiese, di torri e palazzi gentilizi, dove
si sono susseguite attraverso i secoli generazioni di abitanti, ora vittoriosi ora
vinti, ora impegnati nel quieto lavoro, ora agitati da passioni furibonde, che spesso
facevano scorrere il sangue nelle stupende dimore, abbellite da pittori e scultori
di opere immortali.

Tristamente celebre è l’episodio di Imelda Lambertazzi, vittima di ben altro
amore da quello che consumò la nostra Lambertini.

Ignoriamo il giorno ed il mese, in cui venne alla luce, nella Cappella, ossia Parrocchia
di S. Stefano, la piccola Imelda. Manca un documento qualsiasi che ci permetta di
fissare la data della sua nascita; e noi rinunziamo a sostituire la nostra fantasia
alle Matricole dei Battezzati della Chiesa di S. Pietro, o di altre chiese dove allora
si battezzava, le quali oggi non esistono più. Solo si può congetturare
che, essendo Imelda morta dodicenne all’incirca nel 1333, deve essere nata verso
il 1320.

Se dobbiamo dar retta a Dante, eran già finiti i bei tempi – almeno per Firenze
– in cui


“Non faceva, nascendo,
ancor paura

la figlia al padre; che ‘l tempo e la dote

non fuggien quinci e quindi la misura.


(Parad. XV,
103 – 105)

Ma le preoccupazioni del
nobile Egano non furono eccessive; anzi l’apparire di questo nuovo fiore nella sua
famiglia, già provata dalla sventura, fu salutato come una benedizione del
Cielo.

Il nome imposto alla neonata, quando fu battezzata o, come allora si diceva “cristianata”
(12), era assai comune in Bologna e nello stesso casato dei Lambertini. E’ un nome
che sa di nordico, come l’altro simile e assai comune di Ymelda. Non parliamo del
cognome Lambertini, che alcuni vogliono senz’altro di origine sassone. I bolognesi
contrassero poi Ymelda, o Imelda, in Belda e ne fecero anche graziosi vezzeggiativi
come Imeldina e Imeldinella.

Il B. Raimondo da Capua, accintosi a narrare la meravigliosa vita di S. Caterina
da Siena, riuscì a trovare anche nel nome di Lei un indizio ed un auspicio
della sua figura morale. Scrisse diverse pagine per dimostrare che Caterina è
quasi sinonimo di catena; e andò tanto oltre da intravedere nientemeno la
santa senese in quella grande catena di cui si servì un Angelo nell’Apocalisse
per legare il Demonio! (13).

Ai giorni nostri codesta esegesi stiracchiata è passata di moda; altrimenti
potremmo accettare la spiegazione che del nome Imelda ci ha dato una pia scrittrice
francese. Noi la registriamo col beneficio d’inventario. Staccando dunque le sillabe
che compongono il nome (I-mel-da), ne ottenne il recondito significato: “Vai,
dona del miele!”. Non c’è che dire: per una santina destinata alla devozione
dei piccoli, la spiegazione è ben trovata.

Ma altro che miele vien fuori dal nome di Imelda, se diamo retta agli studiosi moderni!
Si tratta infatti di un nome germanico portato in Italia dai Franchi, in cui il secondo
elemento è certo il germanico hild (tedesco antico hitia) “battaglia”
ed il primo Jm o Em, è una abbreviazione abbastanza comune dello
stesso germanico Irmin, o Ermin, che significa “grande”, “potente”.
Il senso del nome Imelda è quindi quello di “GRANDE BATTAGLIA” (14).
Chi scrive sa quanto esso sia bene appropriato!

Dopo questa sudata filologica, torniamo sui nostri passi.

La vita di Imelda, dalla nascita fino al suo grande e ultimo giorno, rimane un segreto,
“e la storia è costretta a indovinare; fortuna che c’è avvezza!
“, direbbe il Manzoni. I biografi dei secolo decimosettimo e seguenti supplirono
al silenzio dei documenti immaginando che la piccola Imelda, come si legge di altre
sante, abbia cominciato a menare una vita del tutto singolare, appartandosi dalle
compagne, rinunziando ai giuochi, costruendosi altarini e recitando salteri. Oggi
invece si preferisce non esagerare, e quindi rappresentarsela una bambina come tutte
le altre, capace di giocare alla bambola, di fare capricci e di essere tentata in
qualche peccatuccio di vanità. Dal quale ultimo peccato andò esente
fra tutte le donne soltanto la B. Vergine Maria. S. Giovanni Crisostomo dubitò
anche di Lei; ma S. Tommaso lo ha messo al posto con parole straordinariamente vivaci
(15).

Chi avesse voglia di scandalizzarsi e darci dell’esagerato rifletta; e ricordi i
pianti di S. Caterina da Siena per essersi fatti i capelli biondi, (16) o il rammarico,
istintivo, ma poi subito represso, di S. Teresa, del Bambino Gesù, perchè
una volta non le misero, il vestitino che avrebbe lasciate libere le braccine nude
(17).

C’è però una legge comune, la quale ci permette di supplire ai racconti
dell’infanzia di Imelda, immaginando cose non molto lontane dalla realtà.
Le virtù, secondo la solida e inconcussa dottrina tomista, sono tra loro intimamente
legate; è quindi impossibile possederne una in sommo grado senza il corteggio
di tutte le altre.

Una bambina che entra in monastero a undici anni e che si innamora sino allo spasimo
della Eucaristia, non può essere stata una di quelle farfalline che vivono
di immaginazione e si pascono di vanità mondana.

Se Imelda in monastero fu quell’angelo che sappiamo, non può essere stata
un folletto in casa sua; ma è giusto, storicamente esatto, crederla pia, obbediente,
immacolata, prevenuta dallo Spirito di Dio, che orientò ben presto la sua
candida anima verso le caste gioie della verginità.

NOTE

(1) ALFONSI T. O.P., La
Beata Imelda Lambertini
, Bologna 1927, 16 ss.

Egano de’ Lambertini era Capitano difensore del Comune e del popolo fiorentino il
23 gennaio 1329 (st. fior. 1328), e rimase in tale carica certamente fino a tutto
il mese di ottobre dello stesso anno. («In Dei nomine. amen. Anno salutifere
Incarnationis millesimo trecentesimo vigesimo octavo. Indictione duodecima, die vigesimo
tertio mensis ianuarii Consilium centum virorum ac consilium speciale et generale
domini Capitanei et populi florentini. Nobilis miles dominus Eghanus de Lambertinis
de bononia…
», Provvisioni, in Archiv. di Stato di Firenze, 25 fol. 33.
Vedi ibid. fino al fol. 77v, fine ottobre 1329. – In nomine Christi. Amen. Tempore
nobilium et sapientum virorum dominorum Tebaldi de Castro novo potestatis et Eghani
de Lambertinis de bonomia, Capitanei et delensoris, comunis et populi civitatis florentie…
1329 (st. fior. 1328), 25 gennaio; Missive, Signori, Reg. I Cancelleria 4). [Notizia
dei P. Stefano Orlandi O. P.]

(2) MELLONI G. B., Atti e memorie degli uomini illustri in santità nati
o morti in Bologna
, Il, Bologna 1799, 67 nota 5.

(3) Inferno, XXIII.

(4) MELLONI II, 71 nota 13.

(5) Fr. GALVANO DE LA FLAMMA O. P., Chronica Ordinis (1170-1333), ed. Reichert,
in Mon. Ord. Praed. Historica, II, 1 pagg. 100, 101. – Vedi anche D’AMATO A. O. P.,
I Domenicani e lo Studio Bolognese (Tesi di Laurea alla Facoltà di
Lettere, ms.) pag. 166.

(6) MAZZONI-TOSELLI, Racconti storici estratti dall’Archivio Criminale di
Bologna, I, 554.

(7) Ibidem III, Bologna 1872, 135.

(8) Ibidem I, 577.

(9) I Lambertini ebbero sempre una speciale affezione per l’Ordine Domenicano. Molti
di essi scelsero la loro ultima dimora vicino alla Chiesa di S. Domenico. Cfr. Bologna,
Arch. di S. Domenico, Libellus funerum (fine del sec. XIII). D’AMATO, op.
cit., 166.

(10) Vedi copia del documento fatta da Pietro Locatelli, Archivista di S. Ecc. Don
Egano Lambertini, il 28 Ottobre 1758, in MISCELLANEA DI COSE SPETTANTI A BOLOGNA,
Bologna Biblioteca Comunale, B-43, foglio 197.

(11) ALFONSI T., op. cit. pag. 35 ss. – Una copia autentica e coeva del testamento
di Castora è a Bologna, Arch. di Stato (fondo S. Martino) 17/3499, n. 10.

(12) MAZZONI – TOSELLI, op. cit., II, 145. Cfr. FRATI L., La vita privata in Bologna
dal sec. XIII al XVI
, Bologna 1928, 233.

(13) B. RAIMONDO DA CAPUA O. P., Vita di S. Caterina da Siena, trad. P. G.
Tinagli O. P., Siena 1934, 36.

(14) C. Tagliavini, nel settimanale OGGI del 6 maggio 1954, Linguistica.

(15) S. Giov. Crisostomo dice che la Madonna, con quelle parole «vinum non
habent», «volebat iam eam hominum gratiam conciliare et seipsam clariorem
facere per Filium; et fortassis quid humanum patiebatur». S. Tommaso
risponde risoluto: «…in verbis illis Chrysostomus excessit». Ma poi
cerca di scusarlo. Vedi Somma Teol. P. III, q. XVII art. IV, ad tertium.

(16) B. RAIMONDO, op. cit. ed. cit., 76 e ss.

(17) S. TERESA DEL B. GESÙ, Storia di un’Anima, cap. I.











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