Non invidiare, ma cercare il bene del prossimo

Esercizio di perfezione e di cristiane virtù
composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.

TRATTATO IV. DELL’UNIONE E CARITÀ FRATERNA
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CAPO VI. Di due altre cose che ricerca da noi la carità: non invidiare, ma cercare il bene del prossimo.
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1. La carità non è invidiosa.
2. Emula l’amore dei beati in cielo.
3. Non è ambiziosa e non ha amor proprio.
4. La povertà religiosa assai conferisce alla carità.
5. Perciò non aver mai nulla di proprio.

 

1. La carità, dice l’Apostolo S. Paolo, non è invidiosa; anzi colui che davvero ama un altro, desidera tanto il bene di lui e si rallegra tanto di esso, quanto se fosse suo proprio. Il glorioso S. Agostino (S. AUG. De amicit. l. I, c. 24) dichiara questa cosa con l’esempio di Gionata e del grande amore che egli portava a Davide. Dice la sacra Scrittura: «L’anima di Gionata rimase strettamente congiunta con l’anima di Davide, e Gionata lo amò come l’anima sua» (I Reg. 18, 1). Di due anime se ne fece una sola, e di due cuori un solo; perché Gionata amava Davide come la sua propria anima: e ne seguì che, con esser egli figliuolo del re, desiderava più per Davide che per se stesso il regno. «Tu sarai re d’Israele ed io sarò il secondo dopo di te» (Loc. cit. 23, 17). Mostrò ben Gionata con questo di gustare del bene di Davide come se fosse stato suo proprio. 

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2. Apportano i Santi un altro esempio col quale si dichiara anche meglio questa proprietà e questo effetto della carità, ed è quello dei Beati. Colà nel cielo non vi è invidia tra loro per esservene altri maggiori; anzi se ciò potesse accadere, l’uno desidererebbe all’altro gloria maggiore e di potere ad esso far parte della sua; e chi in questa è a lui inferiore, che gli fosse uguale e ancor superiore; perché tanto si rallegra uno della gloria dell’altro, quanto se fosse sua propria. né questo è molto difficile da capirsi; perché se di qua l’amor naturale delle madri fa che gustino tanto del bene dei figliuoli, quanto se fosse loro proprio; quanto maggiormente farà questo effetto l’amore dei Beati, essendo tanto più eccellente e perfetto! Or altrettanto la carità e l’amore ha da operare in noi, che ci rallegriamo del bene altrui come se fosse nostro proprio; perché è effetto proprio della carità.

E per provarci e animarci maggiormente a questo, S. Agostino nota molto bene, che la carità e l’amore fa suo il bene d’altri; non già spogliando alcuno di esso, ma solamente con gustarne e rallegrarsene esso stesso (S. AUG. Hom. 105, n. 2). Né in questo dice cosa da recare gran maraviglia; perché se uno con amore il peccato altrui e con gustare di esso, lo fa suo, essendo che Dio riguarda il cuore; che maraviglia è che con amare altresì uno l’altrui bene e con gustarne lo faccia similmente suo, specialmente essendo Dio più pronto a premiare che a castigare? Ora consideriamo qui noi un poco e ponderiamo da un canto quanto eccellente cosa sia la carità e quanto gran guadagno abbiamo in essa; poiché possiamo con questa far nostre tutte le opere buone dei nostri fratelli, solamente rallegrandoci di esse. Ed anche ci può con maggior sicurezza riuscire questo nelle altrui, più che nelle opere nostre proprie; poiché delle altrui non siamo soliti a concepire vanagloria come delle nostre. E consideriamo pure e ponderiamo dall’altro canto quanto mala cosa è l’invidia e quanto perniciosa; poiché fa che il bene altrui sia male proprio; affinché quindi procuriamo di fuggire questa e d’abbracciare quella.

3. Di qui poi segue la seconda cosa che soggiunge subito l’Apostolo: «La carità non è ambiziosa, non cerca il proprio interesse» (I Cor 13, 4); perché colui che tiene per proprio il bene altrui, e gusta di esso come se fosse suo, sta molto lontano da questo vizio. Una delle cose che fanno maggior guerra alla carità e più impediscono questa unione è l’amor proprio, il cercare l’uomo se stesso, le sue comodità e i suoi vantaggi. Perciò il nostro S. Padre chiama l’amor proprio gravissimo e capitale nemico d’ogni ordine ed unione (Const. p. 8, c. 1, § 8); e Umberto nella Regola di S. Agostino lo chiama peste della vita comune e religiosa; perché infetta e manda in rovina ogni cosa. Ché sebbene di tutte le virtù è l’amor proprio generale nemico, nondimeno di questa è nemico particolarissimo; e lo stesso suo nome lo dice: perché se è proprio, non è comune, come è quello della carità. L’amor proprio ama la divisione e la particolarità, ogni cosa vuole per sé,in ogni cosa cerca se medesimo: il che è direttamente contrario alla carità e all’unione. 

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4. Commenta S. Giovannni Crisostomo quello che narra la Scrittura di Abramo e di Lot: «La terra non poteva loro bastare per abitare insieme» (Gen. 13, 6). Aveva ciascun di loro tanto bestiame, che il paese in cui erano non bastava a provvederli di pascolo, onde ne seguiva che i pastori dell’uno attaccavano briga con quelli dell’altro; e così bisognò che per mantenere la pace si separassero. Né è da meravigliarsene, perché, dice il Santo (S. IO. CHRYS. Hom. 33 in Gen. n. 3), «ove si tratta di mio e di tuo, subito nascono liti e occasioni di contese e discordie ancora tra parenti o fratelli; ma ove non vi è questo, ivi è pace sicura e concordia». E così vediamo, dice lo stesso Santo, che nella primitiva Chiesa regnava grande unione e concordia fra i fedeli. Avevano tutti un’anima ed un cuore, perché fra di essi non v’era né tuo né mio, ma tutte le cose erano comuni. «Né v’era chi dicesse essere sua alcuna delle cose che possedeva, ma tutto era tra essi comune» (Act. 4, 32). Questa era la cagione del regnar fra di loro tanta unione e fratellanza. E perciò tutte le religioni, così inspirate da Dio e fondate sull’autorità della sacra Scrittura, posero per primo e principale fondamento la povertà; e noi di questa facciamo il primo voto, acciocché non essendovi né mio né tuo, né avendo l’amor proprio a che attaccarsi, abbiamo tutti un’anima ed un cuore. 

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5. Non è dubbio alcuno che è un grande aiuto per conservare la carità e l’unione fra noi altri l’esserci spropriati e, spogliati affatto di tutte le cose del mondo. Ma non basta che in queste cose temporali non vi sia mio né tuo, bisogna che né anche nelle altre cose vi sia; perché se vi sarà, questo ci farà guerra e c’impedirà questa unione e carità. Se tu vuoi l’onore e la stima per te, se desideri il miglior luogo, se vai cercando i tuoi gusti e le tue comodità, per codesta via verrai a disunirti e a discordare dai tuoi fratelli: e questo è quello che suole far guerra alla carità. Da ciò procede il nascere in uno certa specie d’Invidia, che nel suo fratello si scopra raro talento, e che sia quegli che spicchi, e sia lodato, riputato e stimato; perché vorrebbe egli quell’onore e quella riputazione per sé, e gli pare che l’altro venga come ad involarsela tutta a suo pro. Da ciò ancora procede il rallegrarsene, o almeno il nascere in lui una certa specie di compiacimento, quando all’altro non succede bene qualche cosa; perché gli pare che con quello resta colui umiliato e inferiore a sé. Da ciò parimente procede il procurare alle volte di oscurare l’altro direttamente, o indirettamente, ora con apertamente criticare le cose sue, ora con lasciarsi trasversalmente uscire certe parolette di bocca, le quali sgorgano per l’abbondanza di quel malo umore che sta dentro il cuore. Il che tutto è amor proprio disordinato, ambizione, superbia e invidia; che sono le tignuole dalle quali suole esser distrutta l’unione e la carità di uno verso dell’altro. «La carità, dice l’Apostolo, non gode dell’ingiustizia, ma fa suo godimento del godimento della verità» (I Cor 13, 6). La carità non si rallegra che gli altri vadano calando, ma che salgano, si avanzino e vadano crescendo; e ciò quanto più, tanto meglio. «Sei nostro fratello, cresci pure in buon’ora, di migliaia in migliaia» (Gen. 24, 60), ché questa sarà la mia allegrezza e il mio gusto; perché il tuo bene è mio, ed è mio il tuo accrescimento. Non dispiacciono al mercante che traffica in compagnia di altri i guadagni che fanno i compagni, né la buona industria con cui li fanno; anzi se ne rallegra assai; perché ogni cosa viene a risultare in utile suo e di tutta la compagnia. Così abbiamo da rallegrarci noi altri di qualsivoglia bene, talento e accrescimento dei nostri fratelli, perché ogni cosa viene a risultare in bene e utilità di tutto questo corpo della Compagnia, del quale io sono membro e parte e dei cui beni io godo.