Necessità dell’union fraterna

Esercizio di perfezione e di cristiane virtù
composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.

TTRATTATO IV. DELL’UNIONE E CARITÀ FRATERNA
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CAPO II. Della necessità che abbiamo di questa unione e carità e di alcuni mezzi per conservarci in essa.

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1. La carità conserva le comunità.
2. Forma la religione e la rende un paradiso.
3. E particolarmente necessaria alla Compagnia.
4. Esempi di Davide e dei Maccabei.
5. Danni della discordia intestina.
6. Siamo uniti; non ci nuocerà la persecuzione esterna.
7. Esempio dei Romani.
8. Perché tanto necessaria la carità alla Compagnia.
9. Necessità perciò dell’interna mortificazione e dell’ubbidienza.
10. Dalla carità dipende tutto il bene della religione.

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   1. «Ma al di sopra di tutto questo abbiate la carità, che è il vincolo della perfezione» (Coloss. 3, 14), L’Apostolo S. Paolo; scrivendo ai Colossesi, va insegnando e raccomandando loro molte virtù; ma sopra tutte le altre inculca loro la carità, la quale tiene fra loro legate le altre e dà vita a tutte. Lo stesso fa l’Apostolo S. Pietro nella sua prima Epistola canonica dicendo: «Innanzi a tutto avendo tra voi una continua carità» (I Petr. 4, 8). Dal che possiamo raccorre di quanta importanza sia questa carità ed unione; poiché questi Santi Apostoli e Principi della Chiesa ce la raccomandano tanto, che dicono, che questa cosa ha da essere prima di tutte e sopra tutte le cose. Sicché di questa facciamo sempre più conto che di tutto il resto.
   E primieramente ben si vede la necessità generale di questa cosa, poiché qual religione vi può mai essere senza unione e conformità dell’uno con l’altro? Né dico solamente religione, ma né anche congregazione o comunità alcuna vi può essere senza qualche maniera d’unione e d’ordine. Togli via da una moltitudine qualsiasi connessione ed unione, e vedrai che resterà una babilonia ed una confusione. Ove è moltitudine, ivi è confusione, dice il proverbio; ma ciò s’intende quando la moltitudine sta senza ordine ed unione: perciò ordinata ed unita non è più confusione, ma gerarchia. E così tutte le riunioni e tutti gli stati, quanto si vogliono barbari, procurano sempre qualche unione ed ordine, dipendendo tutti da un capo, o da molti, i quali rappresentano un capo solo e un solo governo. E questo vediamo sino negli animali; né solamente nelle api, nelle quali è meraviglioso l’istinto naturale in questa parte; ma, più o meno, anche in tutti gli altri. Cercando essi la propria conservazione, per questo procurano qualche unione fra loro.
   E sino tra gli stessi demoni, con tutto che siano spiriti di divisione e seminatori di zizzania, dice Cristo medesimo che non si ha da credere, che tra di loro stiano in divisione, per questa ragione medesima. «Che se anche Satana è in discordia seco stesso, come sussisterà il suo regno?» E a questo medesimo proposito apporta ivi quel principio tanto certo e tanto esperimentato in materia politica: Qualunque regno in contrari partiti diviso andrà in perdizione, e una casa divisa in frazioni andrà in rovina (Luc. 11. 18 et 17). Il regno che tra se medesimo è diviso, non ha bisogno di nemici per esser distrutto e desolato; perché i membri di esso da se medesimi si andranno consumando e desolando; ed una casa verrà a cadere sopra l’altra casa. Onde Platone ebbe a dire, che nello stato non vi è cosa più perniciosa che la discordia e la disunione, né cosa più giovevole ed utile che la pace ed unione dell’uno coll’altro.

   2. S. Girolamo dice della religione questo medesimo, e con maggior forza (S. HIERON. In Reg. monach. c. 1). «Questa unione e carità fa che i religiosi siano religiosi: senza questa il monastero è un inferno e gli abitanti in esso demoni». Perché qual maggiore interno che, avendo da star sempre insieme col corpo e avendo da trattar l’uno coll’altro, esser differenti fra se stessi di volontà e di pareri? «Ma se v’è unione e carità, la religione sarà un paradiso in terra, e, continua il Santo, quei che vivono in essa saranno angeli»; perché di qua cominceranno a godere quella pace e quiete che di là godono gli angeli. Il che viene confermato da S. Basilio: «Quelli che vivono nella religione, con questa pace e con questa carità ed unione sono, dice egli, simili agli angeli, fra i quali non regnano liti, né contese, né dissensioni di sorta alcuna» (S. BASIL. In Const. Mon. c. 18, n. 2). Il glorioso S. Lorenzo Giustiniani dice che non è qui in terra cosa che tanto al vivo rappresenti la compagnia di quei beati spiriti nel cielo, e l’unione di quella celeste Gerusalemme, quanto l’adunanza in terra dei religiosi uniti in amore e carità. Questa è vita d’angeli, vita celeste. «Veramente il Signore è in questo luogo… Non è qui altra cosa, se non la casa di Dio e la porta del cielo». (S. LAUR. IUSTIN. De discipl. et prof. monast. convers. c. 7).    3. Ma lasciamo da parte il parlare così in generale e veniamo alla necessità particolare che abbiamo noi di questa unione e carità fraterna. Trattando il nostro S. Padre (Const. par. 10, § 9) dei mezzi coi quali si sarebbe conservata ed aumentata la Compagnia nel buon essere suo spirituale, dice che uno dei mezzi principali, che a ciò fare le avrebbe dato grande aiuto, era questa unione e carità dell’uno coll’altro. Ed oltre le ragioni generali che dimostrano esser necessaria questa unione in qualsivoglia religione e comunità, vi sono altre ragioni particolari, per le quali è anche più necessaria tra noi. La prima si è, perché la Compagnia, è uno squadrone di soldati, che Dio ha mandati per rinforzo alla sua Chiesa, acciocché l’aiuti nella guerra che fa contro il mondo e contro il demonio, e a guadagnare anime pel cielo. Così ce lo propone la formula del nostro Istituto, e questo è il generale invito che si fa nella bolla dell’erezione della nostra Compagnia, chiamando i suoi membri uomini «che vogliono ascriversi alla divina milizia sotto il vessillo della croce e servire così a Dio solo e alla sua sposa la Chiesa» (Bulla Iulii Tertii anno Domini 1550). E lo stesso nome di Compagnia  da se stesso lo dice, significando che siamo come una compagnia di soldati, che battiamo tamburo, che innalziamo bandiera e facciamo gente per combattere contro i nemici della croce. Ora se lo squadrone starà molto unito e marcerà in buona ordinanza, tutti impegnandosi per una cosa stessa, romperanno, per così dire, le stesse montagne, ed essi da niuno saranno rotti. Uno squadrone sì bene unito è una cosa fortissima, e così lo Spirito Santo paragona ad esso la Chiesa: «Terribile come un esercito messo in ordine di battaglia» (Cant. 6, 3). Quando uno squadrone è bene ordinato e bene unito, per nessuna parte si può urtare, né si può entrare in esso: si difendono i soldati l’un l’altro. Ma quando si disunisce e si guasta l’ordinanza, si fa debolissimo, e subito viene rotto e posto in scompiglio.

   4. Nel secondo libro dei Re, Davide, per dire che aveva vinti i suoi nemici, dice: «Il Signore ha disperso i miei nemici dinanzi a me, come si disperge l’acqua»; e quel monte, nel quale seguì questo fatto, fu da lui chiamato Baalpharasim, cioè luogo di divisione (II Reg. 5, 20). Di maniera che una stessa cosa è vincere e dividere; ed è una stessa cosa luogo di divisione e luogo di vittoria. E così dicono quei che trattano di guerra che quando un esercito va sconcertato e disordinato, più tosto va al macello che alla battaglia (VEGET. De re militari). Non è nella disciplina militare cosa più inculcata né più raccomandata, che il non sconcertare e non disordinare le file; ma procurare che stiano sempre molto unite ed ordinate, e che l’uno abbia cura dell’altro e stia forte nel suo posto. E non solo il bene comune, ma anche il bene particolare di ciascuno dipende dall’osservarsi quest’ordine; perché scompigliato lo squadrone, andrà in scompiglio egli ancora.
   Ora nello stesso modo cammineranno le cose in questa nostra Compagnia  e squadrone spirituale. Se ci uniamo e ci aiutiamo l’un l’altro, e pieghiamo tutti ad una stessa cosa, metteremo in rotta i nemici, e da niuno saremo vinti né sconfitti. «Il fratello aiutato dal fratello è una forte città», dice il Savio (Prov. 18, 19), e «una cordicella a tre fila si rompe difficilmente» (Eccle. 4, 12). Quando si torcono insieme più funicelle e di esse se ne fa una sola, quella riesce molto forte. Nella corda della balestra, ciascuno di quei fili dei quali è composta ha poca o niuna forza, e molti di essi torti ed uniti insieme vediamo che sono bastanti a piegare un fortissimo acciaio: così sarà di noi altri, se staremo uniti e volgeremo tutti ad una medesima cosa.
   S. Basilio, animando a questo i religiosi, dice loro: Considerate con quanta unione e conformità combattevano e sostenevano quei Maccabei le guerre del Signore (S. BASIL. in Const. Monach. c. 18, n. 4). E di quegli eserciti tanto numerosi, che contavano più di trecento mila uomini, dice la sacra Scrittura nei Libri dei Re: «Si mossero come se fossero stati un sol uomo» (I Reg. 11, 17) perché andavano tutti con una medesima volontà ed animo; e in quella maniera mettevano in timore e spavento i loro nemici e riportavano grandi vittorie. Ora in questo modo abbiamo noi altri da combattere e far le guerre spirituali del Signore, e così faremo gran frutto nelle anime coi nostri ministeri e metteremo in grande spavento i nostri nemici. Il demonio stesso, dice S. Basilio, temerà e non avrà ardire contro di noi; perché si perderà d’animo vedendo tanti così uniti contro di lui, e diffiderà di poterci nuocere.

   5. Il nostro S. Padre mette questa per una delle ragioni principali per le quali èi è in modo particolare necessaria questa unione. «L’unione, dice egli, e conformità dell’uno con l’altro si deve con ogni diligenza procurare, non permettendo cosa contraria; affinché congiunti tra loro con vincolo di fraterna carità, possano meglio e con più efficacia applicarsi al servizio divino ed impiegarsi nell’aiuto dei prossimi». E in un altro luogo dice, che senza questa unione non potrà la Compagnia  né conservarsi, né reggersi, né conseguir il fine, per il quale è stata istituita (Const. par. 3, c. l, § 18; Summ. 42; Epit. 213, § 1; Const. par. 8, c. l, § 1; Epit. 701).
   Cosa certa è, che ove mai tra di noi fossero divisioni, fazioni o dissensioni, non solo non conseguiremo il fine del nostro Istituto, che è guadagnare anime a Dio; ma né anche potremo reggere né conservare noi stessi. Se i soldati, che si hanno da unire per combattere contro i nemici, se la pigliano tra se stessi e combattono l’uno contro dell’altro, è cosa chiara che non solo non vinceranno i nemici, ma che essi fra se medesimi si distruggeranno e desoleranno. «Costoro hanno il cuore diviso; tosto andranno in rovina» (Osee, 10, 2). E così dice l’Apostolo: «Che se vi mordete e vi mangiate l’un l’altro, badate di non consumarvi l’un l’altro» (Gal. 5, 15). Se fra di voi entrano discordie, invidie e mormorazioni, senza dubbio vi andrete consumando e distruggendo l’un l’altro. E questo è quello che si ha da temere nella religione, non i nemici di fuori, né le persecuzioni e contraddizioni che nel mondo possono insorgere contro di noi; ché queste non ci nuoceranno.

   6. Dice molto bene S. Bernardo (S. BERN. Serm. 29 in Cant. n. 3), parlando in questo proposito coi suoi religiosi: «Che cosa vi potrà succedere dal di fuori, che vi possa turbare e contristare, se qua dentro le cose vostre vanno bene e godete la pace e carità fraterna?». Ed apporta quel passo dell’Apostolo S. Pietro: «E chi è che vi possa nuocere, se sarete zelanti del bene?» (1 Pet. 3, 13). Fino a tanto che noi altri saremo quelli che dobbiamo essere e staremo molto uniti e affratellati tra di noi, nessuna contraddizione né persecuzione di fuori potrà nuocerci né pregiudicare. Anzi ci aiuterà e ci servirà per nostro maggior bene ed aumento; come leggiamo nelle storie ecclesiastiche delle persecuzioni che la Chiesa ebbe al di fuori, le quali non le fecero maggior nocumento di quello che il potatore fa alla vigna; poiché per un tralcio che travagliavano, ne germogliavano molti altri più fruttiferi. Onde disse molto bene uno di quei santi martiri al tiranno, che quello che egli faceva collo spargere sangue dei cristiani era innaffiare il terreno, acciocché crescesse e si moltiplicasse maggiormente il frumento.
 
   7. Nel libro dei Maccabei loda la sacra Scrittura i Romani pel mantenersi che facevano molti uniti e concordi tra di loro. «Ogni anno conferiscono la loro magistratura ad un uomo… e tutti ubbidiscono ad uno solo, e non vi è invidia né gelosia tra di loro» (I Mach. 8, 16). E in tutto il tempo che i Romani stettero così uniti fra di loro furono padroni del mondo e soggiogavano tutti i loro nemici. Ma subito che insorsero fra di loro le guerre civili, andarono in isterminio; donde il proverbio: coll’unione e colla concordia crescono e si aumentano le cose, per piccole e deboli che elle siano; e colla discordia e disunione, per grandi e forti che siano, scapitano, si disfanno e vanno totalmente in rovina (SALLUST. De bello Iug. in orat. Micipsae ad Iug.).

   8. Oltre di questo vi è un’altra ragione particolare per la quale nella Compagnia  abbiamo maggior necessità di procurar questa unione; e ce la propone il nostro S. Padre nell’ottava parte delle Costituzioni (Const. p. 8. c. l, § 1; Epit. 701). Questa ragione è, che nella Compagnia  vi sono difficoltà e impedimenti particolari per conseguire e mantener questa unione; e perciò fa di bisogno fiancheggiarla con più appoggi e cercar più rimedi contro questi impedimenti. Le difficoltà che per questo esser vi possono nella Compagnia le riduce ivi il nostro S. Padre a tre. La prima è, l’esser la Compagnia tanto sparsa e diramata peI: tutto il mondo, tra fedeli e infedeli. Stando così i suoi figliuoli tanto lontani e divisi di persone gli uni dagli altri, è cosa più difficile il conoscersi, il trattare insieme e l’unirsi, specialmente abbracciando, come abbraccia la Compagnia, nazioni tanto diverse, in molte delle quali sono delle emulazioni e delle contrarietà. né è così facile il levar via una certa avversione, colla quale l’uomo nasce e si alleva perpetuamente, il giungere a riguardare quello di un’altra nazione, non come straniero, ma come figliuolo della Compagnia  e fratello.
   La seconda difficoltà è, che quelli della Compagnia  per lo più hanno da esser gente di lettere; e la scienza gonfia e nutre nell’uomo una certa stima di se stesso e un certo disprezzo degli altri, e nutre ancora durezza di giudizio; e S. Tomaso dice, che gli uomini letterati non sogliono essere tanto applicati alla devozione, quanto i semplici (S. THOM. 2-2, q. 82, a. 3, ad 3). Onde con ragione si può temere che questo non venga ad esser cagione di non unirsi né affratellarsi tanto fra di loro, volendo ciascuno seguire l’opinione e il parer suo, e camminare pel suo sentiero, procurando onore e riputazione per sé: il che suole esser radice di grande disunione e divisione.
   La terza difficoltà e impedimento non piccolo è che questi medesimi saranno persone di autorità e di maneggio, avranno entratura e domestichezza nelle corti dei principi e signori grandi, e nelle città cogli ordini più qualificati delle persone, e da queste intrinsichezze sogliono venire in conseguenza diverse parzialità, e anche suole per questa parte nella comunità entrare la singolarità, il privilegio, l’esenzione e il non vivere taluno come gli altri; il che pregiudica grandemente all’unione e alla fratellanza.

   9. Per maggiori contrari dunque vi bisognano maggiori precauzioni e rimedi; e così il nostro S. Padre ne va prescrivendo ivi alcuni per ovviare a queste difficoltà. Il primo rimedio, e il fondamento di tutti gli altri, è che non si tengano né s’incorporino nella Compagnia  uomini che non abbiano cercato di domar bene i loro vizi e le loro passioni; perché gente mal mortificata non sopporterà né disciplina, né ordine, né unione. Quegli che avrà molte lettere sarà gonfio e vorrà molti privilegi sopra gli altri; vorrà essere preferito, non farà conto degli altri fratelli cercherà il favore di quel principe e di quel signore, vorrà avere chi lo serva: dal che procedono subito le fazioni e le divisioni. Quanto più dotto e di maggior talento ed autorità sarà uno nella Compagnia, se non è insieme uomo di molta virtù e di molta mortificazione, tanto più vi è da temere della disunione, e che darà da fare alla religione. Si dice molto bene che le lettere e i talenti grandi in un uomo non mortificato sono come una buona spada in mano d’un uomo furioso, il quale farà male con essa a se medesimo e ad altri. Ma se gli uomini letterati saranno mortificati ed umili e non cercheranno se stessi, «ma gli interessi di Gesù Cristo», come dice S. Paolo (Philip. 2, 21); allora vi sarà molta pace ed unione, ed ogni cosa camminerà bene; perché coll’esempio loro aiuteranno assai gli altri e se li tireranno dietro. Questo è il principale rimedio, e che solo basterà, se si adopera e si applica come devesi.
   Ma oltre di questo va suggerendo ivi il nostro S. Padre altri rimedi particolari per rimuovere gl’impedimenti suddetti; come, per il mancamento della comunicazione e della cognizione delle persone, che nasce dallo stare tanto lontane e separate l’una dall’altra, il tenere frequente comunicazione tra sé per mezzo di quelle lettere di edificazione, che usa la Compagnia, colle quali vengono le persone tra di sé ad acquistare una reciproca notizia l’una dell’altra, e scambievolmente s’insinuano ad usare una medesima maniera di procedere, quanto lo comporta la diversità delle nazioni; il che aiuta grandemente per l’unione.
   Un altro rimedio molto principale mette ivi il nostro S. Padre per conservarci in questa unione (Const. p. 8, c. l, § 2, 3, 9; et p. 10, § 6, 9; Epit. n. 702, 708, 878, 849 n. 6, 703), ed è che si osservi l’ubbidienza esattamente; perché l’ubbidienza connette ed unisce i religiosi fra di loro e coi loro Superiori; fa di molte volontà una sola e di molti pareri un solo; perché levata via la propria volontà e il giudizio proprio dei particolari, come si leva per mezzo dell’ubbidienza, resta una volontà e un parere comune del Superiore che unisce tutti; ed uniti che sono i sudditi col loro Superiore, restano uniti tra loro medesimi. E quanto più uniti staranno i sudditi col Superiore, tanto più staranno uniti fra di loro. L’ubbidienza, la disciplina religiosa e l’osservanza delle regole è una rasiera che spiana e uguaglia tutti, e così cagiona grand’ordine ed unione.
   Solevano gli antichi per significare l’unione usare un geroglifico, che era una cetra con molte corde, le quali per essere fra sé concordi e tirate e regolate al suono della prima, facevano una soavissima melodia: così una comunità di tante corde tirate e accordate colla prima, che è il Superiore, fa una soavissima consonanza e armonia. E siccome nella cetra con una sola corda che stuoni, o si strappi, si perde e svanisce tutta quella consonanza e armonia; così ancora nella religione un solo che stoni e non si accordi col Superiore farà che si perda la consonanza e l’armonia di questa unione. Di qui la parola concordia, cioè unione di cuori, perché tutti hanno un cuor solo, secondo quello che sta scritto negli Atti Apostolici: «E la moltitudine dei credenti era un sol cuore ed un’anima sola» (Act. 4, 32).

   10. S. Bernardo dice che, come la cagione del far acqua la nave è il non stare le tavole ben congiunte, o il non essere bene impégolate; così ancora la cagione di rovinarsi e d’andar a male la religione è il non stare ben connessi e uniti i fratelli fra loro con questo legame d’amore e di carità fraterna. Onde il nostro P. Generale Claudio Aquaviva, nella lettera che scrisse dell’unione e carità fraterna, dice che abbiamo da stimar tanto quest’unione e carità, e che l’abbiamo da procurare con tanta sollecitudine, quanto se da essa dipendesse, come in effetto dice che dipende, tutto il bene della Compagnia. E Cristo nostro Redentore in quell’orazione che fece nel licenziarsi dal mondo la notte della sua passione, la chiese al Padre eterno per noi altri come cosa necessaria per la nostra conservazione: «Padre santo, custodisci nel nome tuo quelli che hai a me consegnati, affinché siano una sola cosa, come noi» (IO. 17, 11). E consideriamo di passaggio in queste parole la comparazione che egli ne fa. Poiché, com’egli è una stessa cosa col Padre per natura; così vuole che noi altri siamo una cosa medesima per amore: e questa sarà la nostra guardia e la nostra conservazione.