L’eresia antiliturgica e la riforma protestante del XVI secolo

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L’eresia antiliturgica

e la riforma protestante del XVI secolo

considerata nei suoi rapporti con la liturgia

di dom Prosper Guéranger












La liturgia è cosa
troppo eccellente nella Chiesa per non essersi trovata esposta agli attacchi dell’eresia.
Ma come le sette orientali, che pure avevano infranto il simbolo in tanti altri modi,
non hanno combattuto direttamente, come nozione, l’autorità della Chiesa,
così non si è neppure visto, in questa patria dei misteri, il razionalismo
perseguitare per sistema le forme del culto. Divise tra di loro da violente discordie,
le sette orientali hanno unito al cristianesimo o un panteismo mascherato, oppure
il principio stesso del dualismo. Ma ciò di cui soprattutto hanno bisogno
è credere ed essere cristiani: la loro liturgia è l’espressione completa
della loro situazione. Bestemmie sulla incarnazione del Verbo disonorano certe formule,
ma tale disordine non impedisce che in queste formule, e nei riti che le accompagnano,
siano conservate le nozioni tradizionali della liturgia. Di più, la fede benché
sfigurata è stata feconda fin quasi ai nostri giorni presso questi uomini
che credono male, ma vogliono credere. E i giacobiti, i nestoriani, soltanto dopo
l’anno 1000, hanno prodotto più formule liturgiche, per esempio anafore, dei
greci melchiti, i cui libri non hanno guadagnato più nulla dopo la loro separazione
dalla Chiesa romana, se si eccettuano alcune raccolte di inni composte da persone
di ogni genere, e aggiunte ai libri dell’officio. Ma quest’ultimo tipo di preghiere
non attiene all’elemento fondamentale della liturgia, come le
anafore,
le
benedizioni, ecc., composte dai giacobiti e
dai nestoriani moderni, e di cui troviamo il testo o la notizia nell’opera del Renaudot 
sulle liturgie d’Oriente
[1],
oppure nella biblioteca orientale di Assemàni
[2]. Peraltro il lettore si ingannerebbe
se pensasse che intendiamo tale estrema abbondanza come indice di un progresso. L’antichità,
l’immutabilità delle formule dell’altare è la prima delle loro qualità.
Ma la fecondità cui ci riferiamo è comunque un segno di vita, e non
si può non riconoscere come lo stile ecclesiastico di queste anafore, anche
delle più recenti, è perfettamente conforme con quello consacrato dai
secoli. Quanto alle tradizioni su riti e cerimonie, le sette d’Oriente le hanno conservate
tutte con rara fedeltà, e se talvolta vi si trovano mescolati aspetti superstiziosi,
esse attestano comunque un fondo primitivo di fede, mentre da noi la progressiva
diminuzione delle pratiche esteriori denunzia invece la presenza di un razionalismo
segreto che fa vedere i suoi risultati.

La Chiesa greca ha generalmente conservato con grande cura, se non il genio, almeno
le forme della liturgia. Abbiamo detto altrove come Dio l’ha predestinata, almeno
per un tempo, con l’immobilità dei suoi antichi usi, a rendere una testimonianza
irrinunciabile alla purezza delle tradizioni latine. È per questo che Cirillo
Lukaris
[3]
si arenò in maniera così vergognosa nel suo progetto di iniziare la
chiesa orientale alle dottrine del razionalismo d’Occidente. Comunque lo spirito
di discussione e di puntiglio di Marco d’Efeso
[4] è rimasto nel seno della
chiesa greca, e produrrà i suoi frutti naturali dal momento in cui questa
chiesa sarà chiamata a fondersi nelle nostre società europee. La chiesa
greca deve senza fallo passare per il protestantesimo prima di ritornare all’unità,
e si ha ben ragione di credere che la rivoluzione sia già avvenuta nel cuore
dei suoi pontefici. In un analogo ordine di cose la liturgia, forma ufficiale di
una credenza ufficiale, rimarrà stabile o varierà a seconda della volontà
di chi esercita il potere. Così non è possibile eresia liturgica dove
il simbolo è già minato, ove non si trova altro che un cadavere di
cristianesimo, cui soltanto gli impulsi oppure un galvanismo imprimono ancora qualche
movimento, finché, cadendo a pezzi dalla putrefazione, diverrà del
tutto incapace di ricevere stimoli esterni, come da tempo non aveva più sentito
il tocco della vita.

È dunque solo in seno alla vera Chiesa che può fermentare l’eresia
antiliturgica, vale a dire quell’eresia che si
pone come nemica delle forme del culto. Soltanto dove c’è qualche cosa da
distruggere il genio della distruzione cercherà di introdurre tale deleterio
veleno. L’Oriente ne ha provato una volta sola, ma violentemente, i colpi, e ciò
è avvenuto ai tempi dell’unità. Nel secolo VIII sorse una setta furibonda
la quale sotto il pretesto di liberare lo spirito dal giogo della forma ha rotto,
strappato, bruciato i simboli della fede e dell’amore del cristiano. Il sangue fu
sparso per la difesa dell’immagine del Figlio di Dio come era stato sparso quattro
secoli prima per il trionfo del vero Dio sugli idoli. Ma è stato riservato
alla cristianità occidentale di vedere organizzare nel suo seno la guerra
più lunga, più ostinata, che ancora continua, contro l’insieme degli
atti liturgici. Due cose contribuiscono a mantenere le chiese dell’Occidente in tale
stato di prova: innanzi tutto, come si è detto, la vitalità del cristianesimo
romano, il solo degno del nome di cristianesimo, e di conseguenza quello contro cui
dovevano rivolgersi tutte le forze dell’errore. In secondo luogo il carattere razionalmente
materiale dei popoli occidentali, i quali, privi dell’agilità dello spirito
greco come del misticismo orientale, in fatto di credenze, non sanno che negare,
che rigettare lontano da sé quanto li disturba o li umilia, incapaci per questa
duplice ragione, di seguire al pari dei popoli semitici una stessa eresia per lunghi
secoli. Ecco il motivo per cui da noi, se si trascurano certi fatti isolati, l’eresia
non ha mai proceduto che per via di negazione e di distruzione.In questa direzione,
come ora vedremo, vanno tutti gli sforzi della immensa setta antiliturgista.

Il suo punto di partenza conosciuto è Vigilanzio, questo gallo immortalato
dagli eloquenti sarcasmi di san Girolamo
[5]. Egli declama contro la pompa delle
cerimonie, insulta grossolanamente il loro simbolismo, bestemmia le reliquie dei
santi, attacca a un tempo il celibato dei sacri ministri e la castità delle
vergini. Il tutto per preservare la purezza del cristianesimo. Come si vede ciò
non è una cattiva anticipazione in un gallo del IV secolo. L’Oriente che in
questo ambito ha prodotto soltanto l’eresia iconoclasta, ha risparmiato, anche se
per difetto di consequenzialità, i riti e gli usi della liturgia privi di
un rapporto immediato con le sacre immagini.

Dopo Vigilanzio l’Occidente restò tranquillo per vari secoli. Ma quando le
stirpi barbariche, iniziate dalla Chiesa alla civiltà, si furono alquanto
familiarizzate con l’opera del pensiero, sorsero prima uomini, poi sette che negarono
grossolanamente quello che non comprendevano, dicendo che quanto i sensi non percepiscono
immediatamente non è reale. L’eresia dei sacramentari, del tutto impossibile
in Oriente, ebbe inizio nel secolo XI in Occidente, in Francia, con le bestemmie
dell’arcidiacono Berengario
[6]. La reazione contro una così
mostruosa eresia fu universale nella Chiesa, ma era da prevedere che il razionalismo,
una volta scatenatosi contro il più augusto degli atti del culto cristiano,
non si sarebbe fermato. Il mistero della presenza reale del Verbo divino sotto i
simboli eucaristici doveva diventare il bersaglio di tutti gli attacchi. Bisognava
allontanare Dio dall’uomo, e per attaccare con maggiore sicurezza questo dogma capitale
bisognava bloccare tutte le strade della liturgia, che se si può dir così
sboccassero nel mistero eucaristico.

Berengario non aveva fatto altro che dare un segnale: il suo assalto sarebbe stato
rinforzato già nel suo secolo e nei seguenti, e doveva risultarne per il cattolicesimo
il più lungo e il più spaventoso attacco che abbia mai subito. Tutto
iniziò, dunque, dopo l’anno 1000. “
Era
forse
– dice Bossuet
il tempo della terribile
liberazione di satana rivelata dall’Apocalisse dopo mille anni. Ciò può
significare disordini estremi: mille anni dopo che il forte armato, vale a dire il
demonio vittorioso, fu legato da Gesù Cristo con la sua venuta nel mondo
[7].

L’inferno aveva smosso la feccia più infetta del suo pantano, e mentre il
razionalismo si risvegliava, avvenne che satana gettasse sull’Occidente, come un
soccorso diabolico, l’impura semenza che l’Oriente aveva seminato con orrore nel
suo seno fin dall’origine, la setta che san Paolo chiama il
mistero d’iniquità, l’eresia manichea. È noto come sotto il
falso nome di
gnosi essa aveva macchiato i primi secoli
del cristianesimo, con quale perfidia si era nascosta secondo i tempi nel seno della
Chiesa, permettendo ai suoi seguaci di pregare, e persino di comunicare con i cattolici,
penetrando fino alla stessa Roma, ove fu necessario per scoprirla l’occhio penetrante
di un san Leone e di un san Gelasio. Questa setta abominevole, sotto il pretesto
di spiritualismo in preda a tutte le infamie della carne, bestemmiava nel segreto
le pratiche più sante del culto esteriore come grossolane e troppo materiali.
Si può vedere quanto ce ne riferisce sant’Agostino nel libro contro Fausto
il manicheo il quale accusava di idolatria il culto dei santi e delle loro reliquie.

Gli imperatori d’Oriente avevano perseguito tale setta infame con le loro disposizioni
più severe, senza riuscire a estinguerla. La si ritrova nel IX secolo in Armenia
sotto la direzione di un capo chiamato Paolo, dal quale a questi eretici in Oriente
fu dato il nome di
pauliciani. Ed essi vi divennero così
potenti da sostenere guerre contro gli imperatori di Costantinopoli. Pietro Siculo,
inviato presso di loro da Basilio il Macedone per trattare uno scambio di prigionieri,
ebbe la possibilità di conoscerli e scrisse un libro sui loro errori.

“Egli vi descrive questi eretici – dice Bossuet – con le caratteristiche loro
proprie, con i loro due princìpi, con il disprezzo che avevano nei confronti
del Vecchio Testamento,
con
la loro abilità prodigiosa di nascondersi quando volevano
, e con gli altri segni che abbiamo visto. Ma ne
sottolinea due o tre che non bisogna dimenticare:
la
loro particolare avversione per le immagini della croce
, conseguenza naturale del loro errore, perché
essi rifiutavano la passione e la morte del Figlio di Dio;
il loro disprezzo per la santa Vergine, che non consideravano la Madre
di Gesù Cristo,
in
quanto egli non avrebbe carne umana
;
e soprattutto
il loro
allontanamento dall’eucaristia

[8]. “Essi sostenevano inoltre
che i cattolici onorano
i santi come divinità, ed è per questo che vietano ai laici di leggere
la sacra Scrittura, per paura che scoprano vari errori come questo
[9].

Esisteva già, come si vede, l’eresia antiliturgica del tutto formata. Non
le mancavano che popolazioni disposte ad accoglierla. Per arrivare in Europa la setta
passò per la Bulgaria ove gettò profonde radici: questo fu il motivo
che diede in Occidente il nome di
bulgari ai suoi adepti. Nel 1017, sotto
il re Roberto, se ne scoprirono numerosi a Orléans, e poco dopo altri nella
Linguadoca, poi in Italia, ove si facevano chiamare càtari, cioé puri,
infine fino in fondo alla Germania. La loro parola infame era cresciuta dall’interno
come il cancro
[10], e la loro dottrina era sempre
la stessa, fondata sulla credenza nei due princìpi e sull’odio per tutto l’aspetto
esteriore del culto, rafforzato da tutte le abominazioni gnostiche. Del resto erano
molto dissimulati, confusi nella Chiesa con gli ortodossi, pronti a ogni sorta di
spergiuro piuttosto che farsi scoprire quando avessero deciso di non parlare. Erano
già molto forti nel XII secolo nel sud della Francia, e non si può
dubitare che Pietro di Bruys
[11] ed Enrico [12],
le cui dottrine avevano come avversari san Bernardo e Pietro il Venerabile, non fossero
due dei capi principali. Nel 1160 li si vede passare in Inghilterra, dove furono
chiamati
poplicani o publicani.
In Francia li si indica con il nome di
albigesi a causa della loro potenza in una
delle nostre province, e color che sono più profondamente iniziati ai disgustosi
misteri della setta sono chiamati
patarini. È noto con quanto zelo
le popolazioni cattoliche del medioevo si scagliassero contro questi settari: la
Chiesa ritenne di poter bandire contro di loro la crociata, e cominciò una
guerra di sterminio, alla quale parteciparono direttamente o indirettamente tutti
i grandi personaggi della Chiesa e dello Stato. La dottrina degli albigesi fu soffocata,
almeno quanto al suo predominio esteriore. Essa rimase sordamente come seme di tutti
gli errori che dovevano esplodere nel XVI secolo, e le dottrine del loro mostruoso
misticismo si perpetuarono fino ai nostri giorni nell’eresia quietista, probabilmente
nemico più pericoloso della vera dottrina liturgica dello stesso razionalismo
puro.

Una nuova branca della setta, meno mistica e perciò più appropriata
ai costumi dell’Occidente, spuntava a Lione sullo stesso tronco del manicheismo importato
dall’Oriente nel momento stesso in cui il primo ramo era minacciato di una distruzione
violenta. Nel 1160 a Lione il mercante Pietro Valdo
[13]
formava la setta dei fanatici turbolenti, conosciuti sotto il nome di
poveri di Lione, ma soprattutto sotto quello di valdesi,
dal nome del loro fondatore. Fu allora che si poté presagire l’alleanza dello
spirito della setta con quella di cui Berengario era stato presso di noi il primo
organo. Liberati ben presto dalle opinioni manichee, impopolari da noi, essi predicavano
soprattutto la riforma della Chiesa, e per attuarla scalzavano audacemente tutto
l’insieme del suo culto. Prima di tutto per loro non vi è più sacerdozio,
ogni laico è sacerdote; il sacerdote in peccato mortale non può più
consacrare; di conseguenza non vi è più eucaristia certa; i chierici
non possono possedere i beni della terra; si devono avere in orrore le chiese, il
sacro crisma, il culto della Vergine e dei santi, la preghiera per i morti. Bisogna
sottoporre ogni cosa alla sacra Scrittura, ecc. I valdesi ritengono la morale della
Chiesa scandalosa per il suo rilassamento, e ostentano un rigore di comportamento
che contrasta con la dissolutezza degli albigesi.

Ma la Francia non era il solo teatro di questa reazione violenta contro la forma
nell’ambito del cattolicesimo. Alla fine del XIV secolo sorgeva in Inghilterra Wyclif
[14] e dava a intendere quasi tutte
le bestemmie dei valdesi. Tuttavia, poiché ogni sistema di errore in religione,
per avere qualche consistenza, ha bisogno di appoggiarsi da vicino o da lontano sul
panteismo, non potendo da noi, come abbiamo osservato, il misticismo gnostico convenire
alle masse, Wyclif pensò di sostenere le sue dottrine dissolventi su un sistema
di fatalismo, la cui fonte era una volontà immutabile di Dio, nella quale
si trovavano assorbite tutte le volontà delle creature.

All’incirca negli stessi tempi Jan Hus
[15]
dogmatizzava in Germania e preparava quella immensa rivolta che per secoli doveva
separare intere nazioni  dalla comunione romana. Anch’egli si fondava molto
sulle conseguenze esagerate del dogma della predestinazione, e passando alla pratica
umiliava il sacerdozio davanti al laicismo, predicava la lettura della sacra Scrittura
a spese della Tradizione e ledeva l’autorità suprema in materia liturgica
con le sue rivendicazioni per l’uso del calice nella comunione laica.

Venne infine Lutero, il quale non disse nulla che i suoi precursori non avessero
detto prima di lui, ma pretese di liberare l’uomo nello stesso tempo  dalla
schiavitù del pensiero rispetto al potere docente, e dalla schiavitù
del corpo rispetto al potere liturgico. Calvino e Zwingli lo seguirono portandosi
dietro Socini, il cui naturalismo puro era la conseguenza immediata delle dottrine
preparate da tanti secoli. Ma col Socini ogni errore liturgico si arresta: la liturgia,
sempre più ridotta, non arriva fino a lui. Ora, per dare un’idea dei danni
provocati dalla setta antiliturgica, ci è parso necessario riassumere la marcia
dei pretesi riformatori del cristianesimo da tre secoli a questa parte, e presentare
l’insieme dei loro atti e della loro dottrina sulla epurazione del culto divino.
Non vi è spettacolo più istruttivo e più idoneo a far comprendere
le cause della così rapida propagazione del protestantesimo. Vi si potrà
scorgere l’opera di una saggezza diabolica che agisce a colpo sicuro, e deve condurre
senza meno a risultati di vasta portata.



1° Odio della Tradizione nelle formule del culto

Il primo carattere dell’eresia antiliturgica è
l’odio della Tradizione nelle formule del culto
divino
. Non si può
contestare la presenza di tale specifico carattere in tutti gli eretici, da Vigilanzio
fino a Calvino, e il motivo è facile da spiegare. Ogni settario che vuole
introdurre una nuova dottrina si trova necessariamente in presenza della liturgia,
che è la tradizione alla sua più alta potenza, e non potrà trovare
riposo prima di aver messo a tacere questa voce, prima di aver strappato queste pagine
che danno ricetto alla fede dei secoli trascorsi. Infatti, in che modo si sono stabiliti
e mantenuti nelle masse il luteranesimo, il calvinismo, l’anglicanesimo? Per ottenere
questo, non si è dovuto far altro che sostituire nuovi libri e nuove formule
ai libri e alle formule antiche, e tutto è stato consumato. Nulla dava più
impaccio ai nuovi dottori, essi potevano predicare del tutto a proprio agio: la fede
dei popoli era ormai senza difesa. Lutero comprese questa dottrina con una sagacità
degna dei nostri giansenisti, quando nel primo periodo delle sue innovazioni, all’epoca
in cui si vedeva obbligato a conservare una parte delle forme esteriori del culto
latino, stabilì per la messa
riformata le regole seguenti:

“Noi approviamo e conserviamo gli
introiti delle domeniche e delle feste di
Gesù Cristo, vale a dire di Pasqua, di Pentecoste e di Natale.
Preferiremmo nella loro interezza
i salmi da cui tali introiti sono tratti
,
come si faceva in antico; ma intendiamo conformarci all’uso presente. Non biasimiamo
coloro che vorranno conservare gli
introiti degli apostoli, della Vergine e
degli altri santi,
quando
siano tratti dai salmi e da altri passi della scrittura
[16].
Lutero aveva troppo orrore dei cantici sacri composti dalla Chiesa stessa per l’espressione
pubblica della fede. Sentiva troppo in essi il vigore della Tradizione che voleva
bandire. Riconoscendo alla Chiesa il diritto di unire la propria voce nelle sacre
assemblee agli oracoli delle scritture, rischiava di dover ascoltare milioni di bocche
anatematizzare i suoi nuovi dogmi. Dunque odio contro tutto ciò che, nella
liturgia, non è tratto esclusivamente dalle sacre scritture.

 

2° Sostituzione delle formule ecclesiastiche con letture della sacra
Scrittura

Il secondo principio della setta antiliturgica è, infatti, quello
di
sostituire le formule
di stile ecclesiastico con letture della sacra scrittura
. Essa vi trova un duplice vantaggio: prima di tutto
quello di far tacere la voce della Tradizione, della quale ha sempre timore; inoltre
un mezzo per diffondere e sostenere i suoi dogmi per via di negazione o di affermazione.
Per via di negazione passando sotto silenzio, per mezzo di un’abile scelta, i testi
che esprimono la dottrina contraria agli errori che vogliono far prevalere; per via
di affermazione mettendo in luce passaggi tronchi i quali, non mostrando che un aspetto
della verità, nascondono gli altri agli occhi del volgo. Da vari secoli si
sa bene che la preferenza data da tutti gli eretici alla sacre scritture rispetto
alle definizioni ecclesiastiche non ha altro motivo che la facilità di far
dire alla parola di Dio tutto quello che si vuole, mostrandola e nascondendola a
seconda delle esigenze. Vedremo d’altronde ciò che hanno fatto in questo campo
i giansenisti, obbligati dal loro sistema a conservare il legame esteriore con la
Chiesa; quanto ai protestanti, essi hanno ridotto quasi del tutto la liturgia alla
lettura della scrittura, accompagnata da discorsi nei quali la si interpreta con
la ragione. La scelta e la determinazione dei libri liturgici hanno finito per cadere
nel capriccio del riformatore, il quale, in ultima istanza, decide non soltanto il
senso della parola di Dio, ma il fatto stesso di detta parola. Così Martin
Lutero ritiene che nel suo sistema di panteismo siano dogmi da stabilire l’inutilità
delle opere e la sufficienza della sola fede, e quindi dichiarerà che l’epistola
di san Giacomo è una
epistola
di paglia
, e non una
epistola canonica, per il solo fatto che vi si insegna la necessità delle
opere per la salvezza. In tutti i tempi e sotto tutte le forme sarà lo stesso:
niente formule ecclesiastiche, la sola scrittura, ma interpretata, ma scelta, ma
presentata da colui o da coloro che hanno interesse alla innovazione. La trappola
è pericolosa per i semplici, e solo molto dopo ci si rende conto di essere
stati ingannati, e che la parola di Dio, questa spada a doppio taglio, come dice
l’apostolo, ha causato gravi ferite perché era maneggiata da figli di perdizione.

 

3° Introduzione di formule erronee

Il terzo principio degli eretici sulla riforma della liturgia, dopo aver
eliminato le formule ecclesiastiche e proclamato l’assoluta necessità di non
utilizzare che le parole della scrittura nel servizio divino, accorgendosi che la
scrittura non si piega sempre, come essi vorrebbero, a tutti i loro voleri, il loro
terzo principio è, noi diciamo,
di
fabbricare e introdurre delle formule diverse
,
piene di perfidia, mediante le quali i popoli siano ancor più solidamente
incatenati nell’errore, e tutto l’edificio della riforma empia sia consolidato per
secoli.


 


4° Abituale contraddizione con i princìpi

Non ci si deve meravigliare della contraddizione che l’eresia denota in
tal modo nelle sue opere, se si tiene presente che il quarto principio o, se si vuole,
la quarta necessità imposta ai settari dalla natura stessa del loro stato
di rivolta, è
una
abituale contraddizione con i loro stessi princìpi
. Così deve essere per la loro confusione
nel gran giorno, che presto o tardi viene, in cui Iddio rivela la loro nudità
alla vista dei popoli che essi hanno sedotto, e anche perché non riesce all’uomo
di essere conseguente: la verità sola può esserlo. Così tutti
i settari, senza eccezione, cominciano col rivendicare i diritti dell’antichità:
vogliono liberare il cristianesimo da tutto ciò che l’errore e le passioni
degli uomini vi hanno introdotto di falso e indegno di Dio. Non vogliono nulla che
non sia primitivo, e pretendono di riprendere dai suoi albori l’istituzione cristiana.
Per conseguire tale effetto essi sfrondano, fanno scomparire, sopprimono: tutto cade
sotto i loro colpi, e quando si lavora a ripristinare nella sua originaria purezza
il culto divino, si trova che si è inondati di formule nuove che non datano
che dal giorno prima, che sono incontestabilmente umane, dato che chi le ha redatte
vive ancora. Ogni setta subisce questa necessità: lo abbiamo visto per i monofisiti,
per i nestoriani, ritroviamo la stessa cosa in tutte le branche dei protestanti.
La loro affettazione di predicare l’antichità non è giunta se non a
metterli in condizione di battere in breccia tutto il passato, e poi si sono messi
di fronte ai popoli sedotti e hanno giurato loro che tutto andava bene, che le superfetazioni
papiste erano scomparse, che il culto divino era ritornato alla sua santità
originaria. Sottolineiamo ancora una caratteristica nell’ambito del cambiamento della
liturgia da parte degli eretici. Ed è che nella loro furia di innovare essi
non si accontentano di sfrondare le formule di stile ecclesiastico, da loro marchiate
col nome di parola umana, ma estendono la loro riprovazione alle letture e alle preghiere
che la Chiesa ha improntato alla scrittura. Cambiano, sostituiscono, non vogliono
pregare con la Chiesa, così si scomunicano da sé stessi e temono fin
la minima particella dell’ortodossia che ha presieduto alla scelta di quei passaggi.

 

5° Eliminazione delle cerimonie e delle formule che esprimono misteri

Dato che la riforma della liturgia è stata intrapresa dai settari
con lo stesso scopo della riforma del dogma, di cui è la conseguenza, ne consegue
che come i protestanti si sono separati dall’unità al fine di credere di meno,
così sono stati indotti a
togliere
dal culto tutte le cerimonie, tutte le formule che esprimono misteri
. Hanno accusato di superstizione,
di idolatria tutto quello che non gli sembrava puramente razionale, restringendo
così le espressioni della fede, ostruendo con il dubbio e addirittura con
la negazione tutte le vie che aprono al mondo soprannaturale. In tal modo non più
sacramenti, eccetto il battesimo, in attesa del soccinianesimo che ne libererà
i suoi adepti; non più sacramentali, benedizioni, immagini, reliquie dei santi,
processioni, pellegrinaggi, ecc. Non vi è più altare, ma semplicemente
un
tavolo, non più sacrificio, come
vi è in ogni religione, ma semplicemente una cena; non più chiesa,
ma solamente un tempio, come presso i greci e i romani; non più architettura
religiosa, perché non ci sono più misteri; non più pittura e
scultura cristiana, perché non vi è più religione sensibile;
infine non più poesia, in un culto che non è fecondato né dall’amore
né dalla fede.

 

6° Estinzione dello spirito di preghiera

La soppressione dei misteri nella liturgia protestante doveva produrre senza
fallo
l’estinzione
totale di quello spirito di preghiera che nel cattolicesimo si chiama unzione
. Un cuore in rivolta non ha più
amore, e un cuore senza amore potrà tutt’al più produrre delle espressioni
passabili di rispetto o di timore, con la freddezza superba del fariseo: tale è
la liturgia protestante. Si sente che colui che la recita si compiace di non appartenere
al numero di quei cristiani papisti i quali abbassano Iddio al loro livello con la
familiarità del loro linguaggio volgare.

 

7° Esclusione dell’intercessione della Vergine e dei santi

Trattando nobilmente con Dio la liturgia protestante non ha bisogno di intermediari
creati. Essa crede di mancare al rispetto dovuto all’Essere supremo invocando l’intercessione
della Santa Vergine, la protezione dei santi.
Esclude
tutta l’idolatria papista che domanda alla creatura quello che dovrebbe domandare
a Dio solo
. Sbarazza
il calendario da tutti i nomi di uomini che la Chiesa romana iscrive con tanta temerità
a fianco del nome di Dio: ha soprattutto in orrore quelli dei monaci e di altri personaggi
degli ultimi tempi, che vi vede figurare a fianco dei nomi riveriti degli apostoli
scelti da Gesù Cristo, dai quali fu fondata la Chiesa primitiva, che sola
fu pura nella fede, e libera da ogni superstizione nel culto e da ogni rilassamento
nella morale.

 

8° L’uso del volgare nel servizio divino

Poiché la riforma liturgica ha tra i suoi fini principali l’abolizione
degli atti e delle formule mistiche, ne segue necessariamente che i suoi autori debbano
rivendicare l’uso della
lingua volgare nel servizio divino
.
Questo è uno dei punti più importanti agli occhi dei settari. Il culto
non è una cosa segreta, essi dicono: il popolo deve capire quello che canta.
L’odio per la lingua latina è innato nel cuore di tutti i nemici di Roma:
costoro vedono in essa il legame dei cattolici nell’universo, l’arsenale dell’ortodossia
contro tutte le sottigliezze dello spirito settario, l’arma più potente del
papato. Lo spirito di rivolta, che li induce ad affidare all’idioma di ciascun popolo,
di ciascuna provincia, di ciascun secolo la preghiera universale, ha del resto prodotto
i suoi frutti, e i riformati sono in grado ogni giorno di accorgersi che i popoli
cattolici, nonostante le loro preghiere in latino, gustano meglio e compiono con
più zelo i doveri del culto dei popoli protestanti. A ogni ora del giorno
ha luogo nelle chiese cattoliche il servizio divino; il fedele che vi assiste lascia
sulla soglia la sua lingua materna; al di fuori dei momenti di predicazione egli
non intende che accenti misteriosi, che cessano di risuonare nel momento più
solenne, il canone della messa. E tuttavia questo mistero lo affascina talmente che
non invidia la sorte del protestante, quantunque l’orecchio di quest’ultimo non intenda
mai suoni di cui non capisce il significato. Mentre il tempio riformato, una volta
alla settimana, riunisce a fatica i cristiani puristi, la Chiesa papista vede senza
posa i suoi numerosi altari assediati dai suoi religiosi figli; ogni giorno essi
si allontanano dal loro lavoro per venire ad ascoltare queste parole misteriose che
devono essere di Dio, perché nutrono la fede e leniscono i dolori. Riconosciamolo,
è un colpo maestro del protestantesimo aver dichiarato guerra alla lingua
sacra: se fosse riuscito a distruggerla, il suo trionfo avrebbe fatto un gran passo
avanti. Offerta agli sguardi profani come un vergine disonorata, la liturgia, da
questo momento, ha perduto il suo carattere sacro, e ben presto il popolo troverà
eccessiva la pena di disturbarsi nel proprio lavoro o nei propri piaceri per andare
a sentir parlare come si parla sulla pubblica piazza. Togliete alla
Église française le sue declamazioni radicali e
le sue diatribe contro la pretesa venalità del clero, e andate a vedere se
il popolo continuerà a lungo ad andare a sentire il sedicente primate delle
Gallie gridare: “
Le
Seigneur soit avec vous
“;
e altri rispondergli: “
Et
avec votre esprit
“.
Tratteremo altrove, in modo specifico, della lingua liturgica.

 

9° Diminuire il numero delle preghiere

Togliendo dalla liturgia il mistero che umilia la ragione, il protestantesimo
si guardava bene dal dimenticarne la conseguenza pratica, cioé
la liberazione dalla fatica e dal
disagio imposti al corpo dalle pratiche della liturgia papista
. Innanzi tutto non più digiuno e astinenza,
non più genuflessione nella preghiera, per il ministro del tempio non più
offici giornalieri da compiere, neppure preghiere canoniche da recitare in nome della
Chiesa. Questa è una delle forme principali della grande emancipazione protestante:
diminuire il numero
delle preghiere pubbliche e personali
.
L’evento ha dimostrato ben presto che la fede e la carità, che si alimentano
della preghiera, si sarebbero estinte nella riforma, mentre esse non cessano di alimentare
presso i cattolici,  tutti gli atti di devozione a Dio e agli uomini, fecondate
come sono dalle ineffabili risorse della preghiera liturgica compiuta dal clero secolare
e regolare, cui si unisce la comunità dei fedeli.

 

10° Odio verso Roma e le sue leggi

Come era necessaria al protestantesimo una regola per discernere tra le
istituzioni papiste quelle che potevano essere più ostili al suo principio,
esso ha dovuto scavare nelle fondamenta dell’edificio cattolico, e trovare la pietra
fondamentale che lo sostiene tutto. Il suo istinto gli ha fatto scoprire innanzi
tutto il dogma inconciliabile con ogni innovazione:
la potestà papale. Quando Lutero scrisse sulla sua bandiera: odio verso Roma e le sue leggi, non faceva che proclamare ancora
una volta il grande principio di tutte le branche della setta antiliturgica. Quindi
ha dovuto abrogare in massa il culto e le cerimonie, come l’idolatria di Roma; la
lingua latina, l’ufficio divino, il calendario, il breviario, tutte abominazioni
della grande meretrice di Babilonia. Il romano pontefice pesa sulla ragione con i
suoi dogmi, pesa sui sensi con le sue pratiche rituali: bisogna dunque proclamare
che i suoi dogmi non sono che bestemmia ed errore, e le sue osservanze liturgiche
soltanto un mezzo per fondare più fortemente un dominio usurpato e tirannico.
È per questo motivo che, nelle sue litanie emancipate, la chiesa luterana
continua a cantare ingenuamente: “
Dal
furore omicida, dalla calunnia, dalla rabbia e dalla ferocia del turco e del papa,
liberaci o Signore

[17]. È questo il luogo
per richiamare le ammirabili considerazioni di Joseph de Maistre, nel suo libro
Du Pape, ove mostra con tanta sagacia e profondità,
che nonostante le dissonanze che dovrebbero separare le une dalle altre le diverse
sette separate, vi è una qualità nella quale si uniscono tutte, che
è la “non romanità”. Immaginate una qualunque innovazione,
sia in materia di dogma sia in materia di disciplina, e vedete se è possibile
realizzarla senza incorrere, volenti o nolenti, nella nota di “
non romano“, o se volete in quella di “meno romano“, se si manca di audacia. Resta da sapere
quale pace potrà trovare un cattolico nella prima, o anche nella seconda di
queste situazioni.

 

11° Distruzione del sacerdozio

L’eresia antiliturgica, per stabilire per sempre il suo regno, aveva bisogno
di distruggere in fatto e in diritto il sacerdozio nel cristianesimo, perché
sentiva che dove vi è un pontefice vi è un altare, e dove vi è
un altare vi è un sacrificio, e quindi un cerimoniale mistico. Dunque dopo
aver abolito la qualità di sommo pontefice, bisognava annientare il carattere
del vescovo dal quale emana la mistica imposizione delle mani che perpetua la sacra
gerarchia. Di qui
un
lato presbiterianesimo, che non è che la conseguenza immediata della soppressione
del sommo pontificato
.
Da allora non vi sono più
sacerdoti propriamente detti: come farà
la semplice elezione, senza consacrazione, a rendere un uomo consacrato? La riforma
di Lutero e di Calvino non conosce dunque che ministri di Dio, o degli uomini, come
si vedrà. Ma è impossibile fermarsi qui. Scelto, istallato da laici,
portando nel tempio la toga di una magistratura bastarda, il ministro non è
che un laico investito di funzioni accidentali. Dunque nel protestantesimo non vi
sono più altro che laici. E doveva essere così, perché non vi
è più liturgia, come non vi è più liturgia perché
non vi sono più altro che laici.

 

12° Il principe capo della religione

Infine, ed è l’ultimo grado dell’abbrutimento, non esistendo più
il sacerdozio, dato che la gerarchia è morta, il principe, la sola autorità
possibile tra i laici, si proclamerà capo della religione, e si vedranno i
più fieri riformatori, dopo essersi scosso il giogo spirituale di Roma, riconoscere
il sovrano temporale come sommo pontefice, e collocare il potere sulla liturgia tra
le attribuzioni del
diritto
maiestatico
. Non ci
saranno dunque più dogma, né morale, né sacramenti, né
culto, né cristianesimo se non in quanto piacerà al principe, perché
a lui è devoluto il potere assoluto sulla liturgia, da cui tutte queste cose
hanno la loro espressione e la loro applicazione nella comunità dei fedeli.
Ecco dunque l’assioma fondamentale della Riforma, e nella prassi e negli scritti
dei dottori protestanti. Quest’ultimo tratto completerà il quadro, e metterà
il lettore in grado di giudicare la natura della pretesa liberazione, operata con
tanta violenza nei confronti del papato per dare luogo in seguito, ma necessariamente,
a una dominazione distruttiva della natura stessa del cristianesimo. È vero
che ai suoi inizi la setta antiliturgica non aveva l’abitudine di blandire in questo
modo i potenti: albigesi, valdesi, viclefiti, hussiti, tutti insegnavano che bisogna
resistere e addirittura opporsi ai principi e ai magistrati che si trovano in stato
di peccato, pretendendo che un principe sarebbe decaduto dal suo diritto dal momento
in cui non fosse più in grazia di Dio. La ragione di ciò è che
questi settari, temendo la giustizia dei principi cattolici, vescovi esterni, avevano
tutto da guadagnare minando la loro autorità. Ma dal momento che i sovrani,
associati alla rivolta contro la Chiesa, volevano fare della religione un affare
nazionale, un mezzo di governo, la liturgia, ridotta al pari del dogma, nei confini
di un paese, era naturalmente di competenza della più alta autorità
di quel paese, e i riformatori non potevano fare a meno di provare una viva riconoscenza
verso coloro che in tal modo prestavano il soccorso di un braccio potente per stabilire
e mantenere le loro teorie. È ben vero che vi è tutta una apostasia
in questa preferenza data al temporale sullo spirituale in materia di religione:
ma qui si tratta del bisogno stesso della conservazione. Non bisogna soltanto essere
conseguenti, bisogna vivere. È per questo che Lutero, che si era separato
fragorosamente dal pontefice romano in quanto fautore di tutte le abominazioni di
Babilonia, non si vergognò di dichiarare teologicamente la legittimità
del doppio matrimonio per il langravio di Hesse, ed è per questo che l’abbé
Gregoire trovò nei suoi princìpi il mezzo di associarsi al voto di
morte contro Luigi XVI e in pari tempo di farsi il campione di Luigi XIV e Giuseppe
II contro i romani pontefici.

Queste le principali massime della setta antiliturgica. Noi non abbiamo nulla esagerato:
non abbiamo fatto che riportare la dottrina cento volte professata negli scritti
di Lutero, di Calvino, dei Centuriatori di Magdeburgo, di Hospinian
[18], di Kemnitz, ecc. I loro libri
si possono consultare facilmente, o meglio l’opera che ne è uscita è
sotto gli occhi di tutti. Abbiamo creduto utile porne in luce gli aspetti più
importanti. Si ricava sempre una utilità dalla conoscenza dell’errore: l’insegnamento
diretto talvolta è meno vantaggioso e meno facile. Spetta ora al logico cattolico
trarne il contraddittorio.


NOTE


[1] Eusébe Renaudot, orientalista
e liturgista (Parigi 1648-ivi 1720). È autore tra l’altro della
Liturgiarum
orientalium collectio
,
2 voll. (1715-1716), ristampata a Francoforte nel 1847, opera ancor oggi indispensabile,
che contiene la messa di tutti i riti orientali, eccetto i greci e gli armeni, con
note e studi eruditi [NdT].

[2]Giuseppe Simone o Simonio Assemàni
(arabo as-Sim’ani), orientalista cattolico (Tripoli, Libano 1687-Roma 1768). Fu canonico
vaticano, prefetto della Biblioteca vaticana e nel 1766 arcivescovo titolare di Tiro.
È autore tra l’altro della
Bibliotheca
orientalis
, opera
prevista in 12 volumi, ma dei quali uscirono solo i primi quattro (Roma 1719-1728),
che fu universalmente riconosciuta come basilare per la letteratura siriaca [NdT].

[3] Cirillo Lukaris, patriarca di Costantinopoli
(Candia 1572-Costantinopoli 1638) Tentò di introdurre nella chiesa greca le
dottrine del calvinismo, che aveva fatto proprie nella sua
Confessione di fede in diciotto articoli, apparsa in latino a Ginevra nel
1629 [NdT].

[4] Marco Eugenico, arcivescovo d’Efeso,
polemista scismatico bizantino (Costantinopoli 1391 o 1392-ivi 1444). Partecipò
al Concilio dell’Unione degli “ortodossi” con la Chiesa cattolica (1439),
ove si oppose tenacemente all’unione stessa soprattutto mediante la disputa teologica.
Per questa battaglia compose una serie di scritti polemici per cui è rimasto
famoso [NdT].

[5] Vigilanzio, prete gallo (Calagurris
presso i Pirenei ?-dopo il 406). Fu denunziato a san Girolamo nell’anno 404 dal sacerdote
Ripario come nuovo eretico di Aquitania, che in uno scritto aveva attaccato il culto
dei santi e delle reliquie. Due anni più tardi Girolamo, dopo averne ricevuto
le opere, compose per confutarlo il
Contra
Vigilantium presbyterum Gallum

[N.d.T.].

[6] Berengario di Tours, eretico (Tours
primi anni dell’XI secolo-ivi 1088). Studiò alla scuola di Chartres, probabilmente
fu cancelliere della stessa scuola e certamente arcidiacono di Tours. Verso il 1047
cominciò a diffondere le sue opinioni sull’eucaristia. Intese dapprima negarvi
la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Gesù Cristo ma
da questo sembra passato anche a negare la presenza reale. Il pane e il vino eucaristici
sarebbero soltanto un simbolo che nutre le anime con il ricordo della incarnazione
e della passione del Figlio di Dio. B. fu scomunicato a Roma nel 1050, la condanna
fu reiterata a Vercelli nello stesso anno e a Parigi l’anno successivo. Si fece assolvere
da un concilio a Tours (1054), il quale si contentò tuttavia di una professione
di fede molto generica. Al Concilio Laterano del 1059 fu costretto a ritrattare le
sue opinioni, ma ritornato in Francia riprese a insegnarle. Richiamato a Roma, finì
per accettare una formula ortodossa davanti al Sinodo Lateranense del 1079. In seguito
si ritirò presso Tours e visse in pace con la Chiesa, pur restando intimamente
legato alle sue opinioni [NdT].

[7] Bossuet, Histoire des variations des Églises protestantes lib. XI § 17, Paris, 1688.

[8] Ivi, lib. XI § 14.

[9] Ibidem.

[10] 2Tm 2,17.

[11] Pietro di Bruys, eresiarca (Bruis,
Hautes-Alpes, o Broues, Drôme primi del XII secolo-St. Gilles presso la foce del
Rodano dal 1132 al 1140). Sacerdote, venne privato dell’ufficio parrocchiale. Si
fece allora sobillatore del popolo contro i sacerdoti da lui considerati impostori:
tra il 1112 e il 1120 aveva iniziato la sua propaganda ereticale nel Delfinato, per
passare poi in Guascogna, a Narbona, Tolosa e Arles. Nel giorno di venerdì
santo a St.-Gilles fu finito tra le fiamme dal popolo indignato [NdT].

[12] Enrico di Losanna, eretico (ultimi
decenni dell’XI secolo-dopo il 1145). È variamente denominato; a Losanna aveva
dimorato prima di comparire notoriamente in Francia. Con una seducente eloquenza
popolare si presentava alle folle come profeta di Dio, scagliandosi contro la vita
mondana e i vizi del clero. Ma la sua equivoca predicazione di austerità era
venata di princìpi eterodossi. Convinto di eresia al Concilio di Pisa (1135)
abiurò i suoi errori, continuò tuttavia la sua propaganda antiecclesiastica
nel sud della Francia, collegando la sua azione con quella di Pietro di Bruys (vedi
nota precedente), di cui fu considerato erede e continuatore Arrestato dal vescovo
di Tolosa finì la sua vita in carcere [NdT].

[13] Pietro Valdo. Il nome Valdo, in
volgare francese Valdés, derivò probabilmente da un villaggio del Delfinato,
Vaux-Milieu, dal quale proveniva il ricco mercante di Lione, solo più tardi,
dal 1368, conosciuto con il nome di Pietro:
Petrus
Valdo
o de Valdo. I primi dati su di lui risalgono agli anni tra
il 1170 e il 1176; in seguito a una forte emozione, causata probabilmente dal racconto
della leggenda di sant’Alessio e dalle devastazioni della carestia del 1173, V. decise
di distribuire tutti i suoi beni ai poveri, e di farsi “povero per amor di Dio”.
Subito si creò intorno a lui un nucleo di discepoli, detti “poveri di
Lione”, i quali ben presto caddero nello scisma e nell’eresia. Nel XVI secolo
i valdesi aderiranno al protestantesimo [NdT].

[14] John Wyclif, eresiarca inglese
(castello di Wycliffe-on-Tees, Yorkshire 1324 o 1328-Lutterworth 1384). Studiò
a Oxford, nel 1353 divene maestro nel Collegio di Balliol. Fu ordinato sacerdote,
si laureò in teologia nel 1372. Fin dal 1370 aveva iniziato a insegnare, commentando
le sentenze di Pietro Lombardo. Si mise a capo di un movimento antipapale in Inghilterra,
atteggiandosi a riformatore religioso. Scrisse varie opere di teologia. Le sue dottrine,
condensate in 45 proposizioni, furono condannate dal Concilio di Costanza (4 maggio
1415) [NdT].

[15] Jan Hus, agitatore religioso (Husinec,
Boemia meridionale 1370 ca.-Costanza 1415). Predicatore e professore di teologia
all’università di Praga. Fece proprie gran parte delle dottrine dell’eresiarca
inglese Wyclif (vedi nota precedente), e diede origine al movimento detto hussitismo.
Chiamato davanti al Concilio di Costanza a difendere le proprie tesi, fu accusato
di eresia: non avendo voluto ritrattare fu condannato al rogo e giustiziato il 6
luglio 1415. I suoi errori condannati dal concilio riguardano soprattutto l’ecclesiologia
[NdT].

[16] Lebrun,
Explications de
la messe
, 4, 13.

[17] Lutherisches
Gesangbuch
, Leipzig,
667.

[18] Rudolf Hospinian (Wirth), storico
della Chiesa protestante (Altdorf, presso Zurigo, 1547-Zurigo, 1626). Figlio del
parroco e decano Adrian Wirth. Le sue opere si rivolgono soprattutto contro la dottrina
cattolica dei sacramenti [NdT].


Titolo originale:
Institutions liturgiques, I2, Paris, 1878, pp. 388-407. Traduzione italiana
di Fabio Marino, pubblicata in “Civitas Christiana”, Verona n° 7-9,
1997, 13-23. Testo ripreso dal sito
UNA VOCE VENETIA