La vanagloria e quelli che aiutano il prossimo

Esercizio di perfezione e di cristiane virtù
composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.

TRATTATO III. DELLA RETTITUDINE E PURITÀ D’INTENZIONE CHE DOBBIAMO AVERE NELLE OPERE NOSTRE

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CAPO V. Della necessità particolare che hanno di guardarsi da questo vizio della vanagloria quelli che hanno per ufficio l’aiutare i prossimi.
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1. Pericolo della vanagloria nei ministeri apostolici.
2. E’ assai nociva.
3. Esempi vari:

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   1. Sebbene tutti hanno necessità di armarsi contro questa tentazione della vanagloria, come abbiamo detto, noi nondimeno, siccome quelli che abbiamo per ufficio e per istituto l’attendere a salvar anime, siamo in più particolare necessità di stare in questo molto avvertiti. Ché quanto i nostri ministeri sono maggiori e più spirituali, tanto da un canto è maggiore il pericolo, e dall’altro sarebbe maggiore il nostro peccato, se in essi cercassimo noi stessi e l’essere tenuti in riputazione e stimati dagli uomini. Perché sarebbe questo un volere esaltare e ingrandire noi stessi con quello che Dio più pregia e vuole che sia riconosciuto per suo, come sono le grazie e i doni spirituali.
   Onde S. Bernardo dice: «Guai a quelli che hanno avuto il dono di sentire e parlar bene di Dio, se siano tali da credere la pietà un lucro, da volgere a vanagloria quello che avevano ricevuto per spenderlo a vantaggio di Dio! Paventino costoro quel che si legge nel Profeta Osea: «Io fui quegli che fornii la copia d’argento e d’oro, di cui fecero.la statua di Baal» (S. BERN. Serm. 4 in. Cant. n. 6). Col dono mio si sono fabbricato per se medesimi un idolo di onore.

 

   2. S. Gregorio apporta a questo proposito quello che dice S. Paolo ai Corinti: «Noi non siamo come moltissimi, che adulterano la parola di Dio; ma parliamo con sincerità, come da parte di Dio, dinanzi a Dio, in Cristo» (II Cor. 2, 17). Dà il Santo due spiegazioni quanto all’adulterare la parola di Dio. Il primo, dice, è quando uno intende e dichiara la divina Scrittura diversamente da quello che è, cavandone così sensi falsi e adulterini; diversi cioè e contrari a quelli che lo Spirito Santo ha dichiarato alla sua sposa, la Chiesa. La seconda spiegazione dell’adulterare la parola di Dio è quella che fa più al nostro proposito; cioè quando non s’intende di generare con essa figli spirituali per Dio, conforme al detto dell’Apostolo: «Io vi ho generati per mezzo del Vangelo» (I Cor 4, 15); ma si cerca il vantaggio proprio, quello di essere stimati dagli uomini (S. GREG. Moral. l. 22, c. 16, n. 39). Non adulteriamo dunque la parola di Dio, né pretendiamo nei nostri ministeri altra cosa che l’onore e la gloria di Sua Divina Maestà, conforme a quello che dice Cristo nostro Redentore: «Io non cerco la gloria mia» (Io. 8, 50), ma l’onore e la gloria del mio Padre celeste.

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   3.Narra la sacra Scrittura un’azione eroica di Gioabbo, capitano generale dell’esercito di Davide, degna d’essere raccontata e imitata. Dice che, stando Gioabbo col suo esercito sopra la città di Rabat, che era la metropoli degli Ammoniti, nella quale risiedeva il re colla sua corte, e avendo già ridotto l’assedio a tanto buon termine, che stava per entrarvi e impadronirsene, spedì corrieri al re Davide, facendogli sapere in che punto stava l’impresa, che perciò venisse ed entrasse nella città e la prendesse egli stesso. E ne rendeva questa ragione: «Affinché, se la città viene soggiogata da me, non si ascriva a me la vittoria» (II Reg. 12, 28). E così fu fatto. Questa fedeltà abbiamo da usare noi altri con Dio in tutti i nostri ministeri, non volendo mai che si attribuisca a noi il frutto, né la conversione delle anime, né il buon successo dei negozi, ma ogni cosa a Dio. «Non a noi, Signore, non a noi; ma al nome tuo dà gloria» (Ps 113, 9)7. Tutta la gloria si deve dare a Dio, che sta nei cieli; ché così fu cantato dagli angeli: «Gloria a Dio nel più alto del cieli» (Luc. 2, 14).
   Di S. Tommaso d’Aquino leggiamo nella sua Vita, che non ebbe mai, mentre visse, vanagloria che arrivasse ad esser colpa; mai non ebbe compiacimento né gusto vano delle lettere, né dell’angelico suo intelletto, né degli altri doni e grazie fattegli da Dio. E del nostro Santo Padre Ignazio leggiamo nella sua Vita, che per molti anni avanti la sua morte non ebbe né anche tentazione di vanagloria; perché l’anima sua, col lume celeste che aveva, era tanto illuminata, ed era tanto grande in essa la cognizione e il disprezzo di sé, che soleva dire, che nessun vizio temeva meno che questo della vanagloria (RIBAD. l. 5, c. 3). Questo è quello che noi altri abbiamo da imitare, e confonderci e vergognarci quando anche in cose vili ci lasciamo trasportare dalla vanità. Ed è necessario che ci andiamo assuefacendo a non far conto delle lodi né della stima degli uomini, e a non guardare a fini umani nelle cose piccole, acciocché a questo modo ci andiamo addestrando. a far lo stesso, quando occorresse, anche nelle maggiori.