Fuggire il vizio della vanagloria

Esercizio di perfezione e di cristiane virtù
composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.

TRATTATO III. DELLA RETTITUDINE E PURITÀ D’INTENZIONE CHE DOBBIAMO AVERE NELLE OPERE NOSTRE


CAPO I. Come nelle opere nostre abbiamo da fuggire il vizio della vanagloria.


1. Tutto a maggior gloria di Dio.
2. Quale l’intenzione, tale l’opera
3. Guardiamoci dalla vanagloria.


1. Una cosa tra l’altre più raccomandata e più replicata nelle nostre costituzioni e regole è, che in tutte le opere nostre procuriamo d’avere l’intenzione retta, cercando sempre in esse la volontà di Dio e la maggior gloria sua. Infatti quasi ad ogni passo ci vengono replicate quelle parole: «A maggior gloria di Dio»; ovvero: «avendo sempre riguardo al maggior servizio di Dio», che è una cosa istessa. Teneva il Santo Padre tanto impresso nel suo cuore questo desiderio della maggior gloria ed onore di Dio, ed era tanto usato ed esercitato in far tutte l’opere sue a questo fine, che perciò venne a dirlo tanto spesso, come per un trasporto ed esuberanza di spirito. «Dalla pienezza del cuore parla la bocca» (Luc. 6, 45). Questo fu sempre il suo scopo, e l’anima e lo spirito di tutte l’opere sue, come si legge nella sua Vita (RIBAD. l. 1. c. 3). Onde con molta ragione fu poi apposto nelle sue immagini, come distintivo tutto suo proprio, quel motto: «A maggior gloria di Dio». Questo è il suo stemma, questa la sua caratteristica e la sua iscrizione; e in questa sta scritta come in cifra tutta la sua vita, in questa le sue imprese. Non se gli poteva dare maggior lode in così poche parole.


   2. Or questo ancora ha da essere il nostro stemma e il nostro motto, acciocché, come buoni figliuoli, ci assomigliamo al nostro Padre. E con ragione questa cosa ci viene tanto raccomandata; perché tutto il nostro profitto e la nostra perfezione sta nelle opere che faremo; e quanto saranno queste migliori e più perfette, tanto migliori e più perfetti saremo noi altri. Ora le opere nostre avranno in sé tanto più di bontà e perfezione, quanto più retta e più pura sarà la nostra intenzione, e il loro fine più alto e perfetto. Perché questo è quello che dà l’essere alle opere, secondo quel detto del sacro Vangelo: «Lucerna del tuo corpo è il tuo occhio. Se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà illuminato; ma se il tuo occhio è difettoso, tutto il tuo corpo sarà ottenebrato» (Matth. 6, 22-23). Per l’occhio intendono i Santi l’intenzione, che riguarda e previene quello che si vuol fare: e pel corpo intendono l’opera, che viene subito dietro all’intenzione, in quella guisa che tutto il corpo seguita gli occhi (S. GREG. Hom. tn Ezechiel. 6, 1; 7, 2).
   Dice dunque Cristo nostro Redentore, che quello che dà luce e splendore alle opere è l’intenzione. Onde se il fine e l’intenzione dell’opera sarà buona, buona sarà l’opera; e se sarà cattiva, l’opera anche sarà tale; e se il fine sarà alto e perfetto, tale sarà ancora l’opera. E questo è pur quello stesso che dice l’Apostolo S. Paolo: «Se è santa la radice, santi sono anche i rami» (Rom. 11, 16). Da un albero che ha la radice guasta ed infetta che frutto si può aspettare, se non frutto verminoso e di mal sapore? Ma se la radice è sana e buona, l’albero sarà buono e produrrà frutti buoni. Così avviene nelle opere: la bontà e perfezione di esse sta nella purità dell’intenzione, che è la radice. E questo stesso nome di purità ce lo dice; cioè che quanto esse saranno più pure, tanto saranno migliori e più perfette. S. Gregorio sopra quel passo di Giobbe, «sopra qual cosa sono piantati i suoi cardini?» (Cfr. Liber Iob, 38, 6) dice che, siccome la fabbrica di tutto l’edifizio materiale suol essere appoggiata e sostenersi sopra alcune colonne, e le colonne sopra le loro basi e piedestalli; così tutta la vita spirituale è appoggiata e fondata nella virtù, e le virtù si fondano nella pura e retta intenzione del cuore.

   3. Per procedere in questo con buon ordine, tratteremo prima del cattivo fine, che abbiamo da fuggire nelle opere nostre, non facendole per vanagloria, né per altri rispetti umani; ed indi parleremo del fine o intenzione retta e pura, colla quale dobbiamo farle: perché prima conviene guardarsi dal male o fuggirlo, e poi fare il bene; secondo quelle parole del Profeta: «Fuggi il male e opera il bene» (Ps. 33, 14).
   Tutti i Santi ci avvertono, che ci guardiamo bene dalla vanagloria; perché, dicono essi, è un ladro molto sottile, che ci vuole assaltare e rubarci le opere buone; ed entra tanto occultamente e simulatamente, che molte volte, prima d’esser sentito e conosciuto, ci ha già rubato e ci ha spogliati. S. Gregorio dice, che è come un ladro dissimulato, che si accompagna con un viandante, fingendo di fare il medesimo viaggio, e poi, quando colui sta più spensierato e sicuro, l’assassina e lo spoglia. Io confesso, dice il Santo, che quando mi fermo ad esaminare la mia intenzione nello scrivere questi libri, mi pare di non cercar altro che di piacere in questo a Dio; ma poi in un tratto m’avvedo e trovo esservi entrato dentro e mescolatovisi un certo appetito di dar gusto e piacere in questo anche agli uomini, ed una certa vana compiacenza di ciò, non so come, né in che modo. Se non che da lì a un pezzo m’accorgo, che la cosa non va poi così netta di polvere e di paglia, come quando cominciai; perché so, che la cominciai con buona intenzione e con desiderio di piacere a Dio puramente; ma di poi vedo, che non va la cosa tanto pura. Ci accade in questo, dice egli, quello che accade nel mangiare: cominciamo a mangiare per necessità, ed entra dentro di noi tanto sottilmente la gola e il diletto, che quel che abbiamo cominciato per necessità, per mantenere la natura e conservare la vita, veniamo a continuarlo e a finirlo per diletto e per gusto (S. GREG. Moral. l. 9, c. 25, n. 37). Così nella religione, molte volte pigliamo l’ufficio di predicare ed alt i uffici simili per giovare alle anime, e poi va entrando in noi la vanità, e desideriamo di piacere e dar gusto agli uomini ed essere riputati e stimati: e quando non v’è questo, pare che ci manchino le ali, e lo facciamo di mala voglia.