Dell’amore al proprio disprezzo (RIFLESSIONE)

«DELL’AMORE
AL PROPRIO DISPREZZO»

DEL SERVO DI DIO

P. GIUSEPPE IGNAZIO FRANCHI d’O.












RIFLESSIONE


Dall’esposto
fin qui, e molto più da quello elle si metterà in vista intorno al
merito del disprezzo nell’avvertenza terza, si raccoglie quanto sia imperfetta e
mancante l’idea ed il concetto che si ha dagli uomini in merito al proprio vilipendio:
onde non è da meravigliarsi, se molti vilipendi ad essi riescano affatto impensati
e insopportabili, sembrando loro che gli si faccia una manifesta e gravissima ingiuria
allorché sono provocati con certi trattamenti sprezzanti e disonorevoli, quando
in realtà si fa ad essi non un torto, ma un diritto, ammessa la fondamentale
supposizione: CHE VERAMENTE MERITINO IL DISPREZZO. Dal che ben si scorge quanto si
ingannano quelli che avendo talora ricevuto da alcuno qualche affronto, amareggiati
prorompono in questi accenti: Veramente questo affronto io non me lo meritavo.
Mille e mille volte beati sono coloro che, rischiarati dalla divina luce, penetrano
bene addentro con la riflessione nelle suddette ed altre simili verità: e
qui perciò fanno il loro studio e l’applicazione più seria! Questi
con un tal mezzo arrivano alla cognizione di se medesimi, reputata dai santi sì
necessaria e importante per la vita spirituale, e per giungere al conoscimento di
Dio. Questi, atterrata la propria stima sì difficile a sradicarsi dall’uomo,
sentono bassamente di sé, e si vergognano e confondono essi stessi, e vengono
in conseguenza a gettare il fondamento più saldo e massimo della perfetta
umiltà. Questi sì abilitano ad accettare di buon cuore qualunque sorta
di vilipendio, perché sono già persuasi di meritare tutto senza eccezione
in materia di disprezzo. E finalmente questi si dispongono a concepire un sincero
timore al disprezzo medesimo; il quale amore forma e lavora i Saliti, e sarà
appunto il soggetto da trattarsi nelle pagine seguenti.

Oltre un così buon effetto, che consiste nella nostra profonda umiliazione,
la vista del merito di tanti generi di disprezzo, che portiamo inviscerato con noi,
produrrà nello spirito nostro quiete e tranquillità, perché
non avremo occasione di stupirci e di restar sorpresi, quando ci colpiscono gli oltraggi,
le ingiurie, le umiliazioni: anzi la meraviglia sarà quando nessuno ci vilipende
e siamo dagli altri lasciati vivere in pace: in conseguenza di ciò saremo
meno sensibili agli urti contrari, e più disposti a non abbatterci e venir
meno alle occasioni. Finalmente la medesima vista serve molto a fare acquisto inenarrabile
di grazia e di gloria, come nei due seguenti articoli siamo per dimostrare: e il
cuore frattanto resta più distaccato dagli oggetti creati, e più puro
per affezionarsi intieramente al sommo Bene: e non sapendosi dall’uomo quali generi
di oltraggi stiano per toccargli, si troverà rinvigorito per sostenerli tutti
senza eccezione.

Chi si è profondato nella cognizione, che se gli deve il disprezzo, ben capisce
che i sopraddetti e simili trattamenti non solo non sopravvanzano il suo merito,
ma neppure l’uguagliano e lo pareggiano, anzi gli restano di gran lunga inferiori:
onde dopo di essi tuttora rimane in lui il merito di riceverne altri peggiori, per
riguardo singolarmente ai disprezzi infinitamente più terribili a liti dovuti,
che concernono l’anima e l’eternità, dei quali si tratterà nell’articolo
IV. E sebbene molte volte comprenda, che i suoi persecutori offendono Dio ricevendo
da essi ogni sorte d’oltraggio (del che può santamente dolersi per questo
capo) ciò non ostante per parte sua deve riconoscere in sé tutto il
merito di aver quei moltissimi affronti; e che Dio con infinita giustizia glieli
permette per umiliarlo e offrirgli di che riparare alle sue colpe, servendosi egli
anche a tal oggetto dell’altrui ignoranza, debolezza e malizia. Dal che ne segue,
che non solendo giammai darsi il caso, che un uomo incontri tutti i sopraddetti capi
di disprezzo in uno stesso tempo, e molto meno con tutte le loro circostanze più
umilianti, il vero umile e giusto stimatore di se medesimo sempre si crede trattato
assai meglio del proprio merito (atteso principalmente, che Dio gli risparmi i castighi
dell’anima) e che bagattelle e leggerezze sono i suoi vilipendi, e che a scarsa misura,
e per così dire a stilla a stilla se gli dà a gustare il calice della
confusione e dell’ignominia.












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