COME TRARRE IL MIGLIOR PARTITO DAI NOSTRI SEGNI DI PROGRESSI

I
PROGRESSI DELL’ANIMA NELLA VITA SPIRITUALE

di P. Frederick Willliam Faber d’O.

(1814-1863)









CAPO
III.

COME TRARRE IL MIGLIOR PARTITO DAI NOSTRI SEGNI DI PROGRESSI.

Devo ora supporre
che l’anima del mio pellegrino abbia qualcuno, o tutti i segni di progresso esposti
nel capo I. Non può contentarsi di puramente contemplarli; deve accingersi
a coltivarli. Come devono essi coltivarsi? Il capo presente deve rispondere a questa
domanda. Premettiamo una parola di consiglio in generale. In questi primordi della
vita devota dobbiamo andar guardinghi di non intraprendere troppo, non spingere troppo
alto il volo, non promettere a Dio grandi austerità, e non ingombrarci di
numerose pratiche. Non dobbiamo essere codardi e timidi, ma bensì moderati
e discreti. L’usarci riguardi non implica necessariamente esserci indulgenti. Una
punizione che non sarebbe troppo grave per un adulto, ucciderebbe o storpierebbe
un bimbo.

Nella vita spirituale vi sono generalmente degli aiuti speciali di grazia o mezzi
di grazia appropriati ad epoche particolari; ed appunto perché tali epoche
hanno i loro pericoli, presunzione e scoraggiamento, così ha i suoi due aiuti
o mezzi, raccoglimento e fedeltà; il grande lavoro di quest’epoca è
l’avvezzarsi a queste due cose. Nei nostri primordi, mentre i nostri primi fervori
ardevano nei nostri cuori, sentivamo appena il bisogno e comprendevamo, appena l’importanza
di queste due cose. Esse ci giunsero, da se stesse. Furono un effetto dell’impulso
della grazia e la generosità del giovane amore supplì in gran parte
al penoso e arido addestramento. Così eravamo raccolti senza accorgercene
e fedeli senza saperlo. Ma quei dì passarono,

Sui raccoglimenti furono scritti molti libri divisi in paragrafi più numerosi
di quanto io possa usar parole. Per definirlo brevemente, il raccoglimento è
una doppia attenzione che prestiamo prima a Dio e poi a noi stessi; e deve essere
al più possibile continua senza veemenza e senza violenza, ma non senza qualche
sforzo. La sua nécessità è così grande che, eccettuato
l’amore, nulla è tanta necessario in tutta la vita spirituale. Non possiamo
acquistare altrimenti l’abito di camminar costantemente alla presenza di Dio; né
senza di essa possiamo barcheggiare incolumi fra la moltitudine di peccati veniali
che ci assiepano tutto giorno. Senza il raccoglimento, le ispirazioni dello Spirito
Santo passano inudite ed inattese; le tentazioni ci sorprendono e ci abbattono; la
preghiera stessa diventa nulla più che un tempo di distrazioni più
che usuali se il tempo fuori della preghiera non è speso in raccoglimento.
Senza di esso, perfino l’atto con cui ci applichiamo alla preghiera non fa quasi
altro che sgravar la nostra mente dal peso dei doveri, affine di far meglio luogo
alle distrazioni, meglio che quando tutta la persona, mani, capo e cuore, è
assorbita dalle occupazioni del vivere comune quotidiano.

Questo abito di raccoglimento non può essere acquistato che a gradi. Non v’è
strada agevole che vi conduca rapidamente. La pratica del silenzio in certe occasioni,
se possiamo osservarla senza affettazione e senza renderci singolari, deve essere
una delle nostre mortificazioni a tale oggetto; e poiché per lo più
nelle conversazioni sogliamo parlar più di quanto altri vorrebbe, non ci riuscirà
difficile il mortificarci in questo. Dovremmo anche tenere gelosamente d’occhio ogni
avidità d’udir notizie e di sapere ciò che si passa del gran mondo
che ci attornia. Prima che giungiamo a sentire abitualmente la presenza di Dio e
possiamo agevolmente rivolgerci e ritornare a lui, è in credibile con quanta
facilità gli altri soggetti possono preoccuparci ed assorbirci; ed è
appunto ciò che non dobbiamo permettere loro di fare. Non sono pochi quelli
che sono trattenuti dall’attendere alla perfezione dalla lettura dei giornali. Un
altro mezzo d’acquistare raccoglimento è quello di visitare ogni giorno il
santo Sacramento. Tale visita lascia in noi un’impressione che dura lungamente anche
dopo che fu fatta. Produce silenzio nel nostro cuore, e ci avvolge in un’atmosfera
che respinge da noi l’affaccendato spirito del mondo. È allo stesso fine di
grande aiuto il ritenere dalla meditazione mattutina qualche fiore spirituale, qualche
massima o risoluzione che ci somministri durante il giorno materia a giaculatorie.
Aiuto più grande ancora è la mortificazione, specialmente la custodia
dei sensi, quando può essere praticata senza che altri se ne accorga. Ma il
massimo degli aiuti è l’agir cauto e lento. Ardore, ansietà, impeto,
precipitazione, sono tutte cose fatali al raccoglimento. Facciamo ogni cosa con agio,
misuratamente, con gravità, e diverremo presto raccolti non meno che mortificati.
La natura umana ama di aver molto da fare ed il passar rapidamente da una cosa all’altra;
la grazia invece ha un’indole opposta.

Non trovo del raccoglimento immagine migliore della descrizione della grazia mandata
da Fénélon ad una persona che era in procinto d’entrare in convento.
«Iddio vi farà saggia non della vostra propria saviezza ma della stia.
Egli vi renderà saggia, non facendovi fare molte riflessioni, ma al contrario
distruggendo tutte le irrequiete riflessioni della vostra falsa saviezza. Quando
non agirete più per vivacità naturale, allora sarete saggia senza la
vostra propria saggezza. I movimenti della grazia sono semplici, ingenui, infantili.
L’impetuosa natura pensa molto e parla molto. La grazia pensa poco e parla poco,
perchè è semplice, pacata ed interiormente raccolta. Essa acconciasi
alle differenti indoli. Rende se stessa tutto a tutti. Non ha né forma né
consistenza sua propria, perchè a nulla è sposata, ma prende tutte
le forme delle persone che desidera edificare piamente. Essa si impartisce misuratamente,
si umilia, si piega, si adatta. Non parla altrui secondo la sua propria pienezza,
ma secondo il loro bisogno del momento. Sopporta i rabbuffi e si lascia correggere.
Sopratutto frena la lingua, e mai dice al prossimo cosa che egli non possa sopportare;
invece, la natura sciogliesi in vapori, si volatilizza e sfuma nel bollor d’inconsiderato
zelo (Lettere, tomo 5, p. 398.)».

Il premio speciale che il raccoglimento arreca seco dimostra quanto egli sia grazia
adatta a quest’epoca particolare della vita spirituale. Per esso sono più
facilmente superate le difficoltà di pregar bene, ed alcune delle sue più
pericolose delusioni vengono evitate. La preghiera pare anche avere maggior efficacia
presso Dio quando parte da un cuor raccolto, e le risposte del cielo piovono più
rapide ed abbondanti. Soavità e pietà visitano di nuovo sensibilmente
l’anima colla pace in cui la ripone il raccoglimento; e la libertà di spirito
risultante dal distacco da tutte le cose terrene, quella libertà di spirito
che è una graduale conseguenza del raccoglimento, ci abilita a volare più
che a camminare sul sentiero della perfezione.

Senza raccoglimento, questa libertà di spirito degenera in pura licenza e
dissipazione, e la nostra vita spirituale diviene nulla più che una presuntuosa
imitazione delle libertà, che i santi si acquistarono in seguito ad anni di
eroico frenar se stessi e d’amor disinteressato! Oh quanti cadono in questa fossa,
donde non vengono estratti che per andar schiavi in Egitto! Perchè il raccoglimento
è per se stesso una santa schiavitù, alla quale ripugnamo sommetterci,
ma dalla quale non ci liberiamo che per incontrare un’altra schiavitù più
dura e peggiore. La vanità e la codardia sono egualmente nemici giurati del
raccoglimento; infatti la vanità ci dispiega sempre immagini di noi stessi,
le quali non sono che lusinghiere e adulatrici, e la codardia è incessantemente
annoiata e indispettita dalle istanze del raccoglimento per riforma, conversione
e mortificazione, le quali cose diventano tanto più ardue quanto più
sono differite.

In una parola, a questo punto del nostro pellegrinaggio, le cose esterne, benché
siano un necessario amminicolo di prova, sono un cimento d’un’entità quasi
superiore alla, nostra grazia. Esse cominciano con interessarci in loro favore, con
impossessarsi di noi, con farsi i primi occupanti in noi ; ed appena che la nostra
mente trovasi piena di loro, eludono il nostro cuore e ci adescano in mille attaccamenti
umani, i quali, per quanto possa essere spirituale il loro pretesto, non sono altro
che una vera, schiavitù. Soggiogati così la mente ed il cuore, non
vi manca più che il terzo ed ultimo passo per corromperci, e questo viene
effettuato dalla dissipazione, dalla sensualità e dalle massime del mondo.
Possiamo dunque essere sicuri che senza raccoglimento non faremo progressi.

La fedeltà è l’altro grande aiuto in quest’epoca della vita spirituale.
Ecco ciò che si intende per fedeltà. Ancorché non vivessimo
sotto una regola speciale di vita, pure è un fatto che i doveri e le pratiche
di pietà d’un giorno somigliano molto a quelle d’un altro. Praticamente sarebbe
come se avessimo promesso a Dio certe cose ed una forma periodica di pie osservanze:
cosicché la coscienza ci rimprovera quando senza plausibile causa ne omettiamo,
qualcuna. Così queste pie osservanze diventano una specie di condizione della
nostra perseveranza. Esse acquistano una certa santità, e diventano i canali
ordinari, per i quali Iddio infonde la sua grazia nella nostra anima. Il tentatore
vede tutto questo e sa apprezzare al suo giusto valore questa perseveranza quotidiana.
Ei mette in opra tutta la sua possa per staccarcene e renderci disdegnosi ed incostanti.
Ce la fa sembrar pesante come una cappa di piombo. Oppure ce la rappresenta quale
formalità pericolosa. Ovvero ci rammenta che non vi siamo tenuti né
per ubbidienza né per voto. Procura anche d’indurci a leggere qualche cosa
che era destinato agli scrupolosi, e, la fa erroneamente applicar a noi stessi. O
ancora ci fa immaginare olio tali pratiche non sono conciliabili colla nostra sanità.
Qualunque sia il pretesto, ei se ne vale purché possa adescarci nell’infedeltà
o agli impulsi della grazia od alla continuità delle pie osservanze. La sua
ansietà per renderci sleali è per noi un pegno della somma importanza
della fedeltà.

Il legittimo calmarsi dei nostri primi fervori quando la loro parte è compiuta,
ci rimise naturalmente di più in balìa di noi stessi. Questo ci inette
in pensiero, benché fosse cosa prevista e dovesse accader tosto o tardi. Ma
in conseguenza di ciò divenne più che mai necessario per noi dì
portare un giogo di qualche sorta, ed imparare ciò, che gli scrittori ascetici
chiamano spirito di servitù. Questo, è per noi di grande pregio poiché
realizza e rende positive, tutte le nostre acquisizioni e conquiste e ce le conserva.
Inoltre per affrontare l’ampio deserto che ci sta innanzi abbisognamo d’allegria.
Ma nulla tiene efficacemente viva in noi una santa gioia più che la fedeltà
alla grazia ed alle determinate nostre pie osservanze. Il sentimento di sciagura,
pedissequo al rilassamento frequente od abituale, ci spinge a cercar consolazione
nelle creature ed a rivolgerci al mondo per procurarci il piacer d’obliar ivi noi
stessi per qualche istante e per involarci alla misericordiosa persecuzione dell’eccitante
grazia. Inoltre l’infedeltà turba ed interrompe la formazione degli abiti
buoni, e ciò rende ognor più debole la nostra posizione, rende più
arduo il nostro futuro, e l’interruzione ci fa perdere del terreno già conquistato.
In breve, la fedeltà è la materia greggia della perseveranza; capire
questo è come discernere che la sua importanza non può essere esagerata.

Questi sono dunque per ora i nostri due angeli custodi, cioè il raccoglimento,
ossia una costante e pacata attenzione a Dio ed ai moti del nostro cuore, e la fedeltà
tanto alle ispirazioni della grazia quanto a quelle pie pratiche quotidiane, che
il consiglio, l’ubbidienza o la nostra libera scelta ci indussero ad adottare gradatamente.
Tenendo, questo in vista vengo a rispondere direttamente alla questione: che cosa
dobbiamo fare per coltivare e svolgere i segni dì progresso che scorgiamo
in noi stessi? Raccomando cinque cose.

1. Mettiamoci di botto a fare per amor di Dio qualche cosa di più di quanto
facciamo ora. Esaminiamo che cosa facciamo attualmente, quanto vale, e quanto sforzo
richiede da noi. Riflettiamo se non potremmo far di più senza soccombere sotto
il peso. Possiamo non aggiungere qualche cosa senza molto disagio? Mi faccio questa
domanda perchè sono sicuro che al momento è la via più sicura
da battersi. Ci farà poi alla fine divenire tanto più eroici. Non vi
ha eroismo maggior della discrezione. Osservate come si comporta la Chiesa nel canonizzare
i santi e vedrete come questa idea le è sempre accanto e la segue inseparabilmente.
Ma qualunque cosa aggiungeremo, per quanto sia poca cosa, deve essere qualche cosa,
nella cui esecuzione si deve perseverare. Non deve essere una novena od un mese di
preci, ma qualche cosa di solido e duraturo. Non siamo neppure corrivi in decidere
che per ora non possiamo fare di più. Se dobbiamo essere cauti dobbiamo essere
non meno generosi.

2. Vi sono perciò certe cose che possiamo fare senza paura di sbagliarci,
e sarebbe il mettere un po’ più di spirito interiore in ciò che facciamo
già.

Taluni alla vista di sprechi inutili nell’economia domestica sentonsi così
spiacevolmente scossi, che, anche indipendentemente da ogni considerazione d’interesse,
diventano veramente tristi e tetri. Abbiamo noi pure ben donde essere rattristati
nel mondo spirituale al veder lo spreco di buone parole e buone opere per puro difetto
di spirito interno e di intenzione soprannaturale. La gente non fa tutto giorno che
seminar buon seme sopra aridi sassi. Quale disgrazia! Con un poco di pena che si
dessero sembra ben agevole il dirigere ciascuna delle nostre azioni alla maggior
gloria di Dio ed unire internamente la nostra volontà alla sua in tutto ciò
che pensiamo di fare, o facciamo o soffriamo. La differenza tra un’azione informata
da una tale intenzione interna ed un’altra senza di essa, può dirsi infinita;
ed il risultato d’una tale pratica per l’anima nostra quanto a santità è
immenso. Le conseguenze della preghiera e della mortificazione non reggono al paragone
con quelle di uno spirito interiore. Sicuramente che per maturarle ci vuol tempo.
Esse non manifestansi tutte in un giorno. Niente è meno rivoluzionario che
la vita spirituale. Le sue fasi sono costituzionali, impercettibili e lente. Non
dobbiamo attenderci di divenir santi col praticare questo spirito interno, durante
un mese. Ma possiamo esser certi che se perseveriamo in esso, qualche cosa di grande
ne deriva.

3. Un altro modo di coltivare i segni del progresso che scorgiamo in noi stessi,
è quello di chiedere colla preghiera una maggior brama di perfezione. Ripeto
ciò che già dissi, che cioè noi non apprezziamo questo puro
desio al suo vero valore. Se noi lo apprezzassimo a dovere ne faremmo maggior uso;
infatti facciamo sempre uso di ciò che apprezziamo. Pregar per ottenere maggior
desiderio di perfezione è in sostanza pregare contro la mondanità,
avvezzandoci ed uniformandoci a modelli e idee spirituali, e distruggendo l’antica
influenza, che le corrotte massime del mondo esercitano ancora segretamente sul nostro
cuore. Una tal pratica ci procura un apprezzamento molto più retto e riverente
della maestà di Dio, dell’ amabilità della grazia e della incomparabile
preminenza di tutte le cose spirituali. È ben vero che di rado realizziamo
le nostre brame, perchè accade sempre come in antico che lo spirito è
pronto, ma la carne è inferma. Tuttavia ciò che eseguiamo trovasi in
proporzione col nostro desiderio, e specialmente con l’intensità e la veemenza
di esso. Queste sono ragioni di gran peso per coltivare quanto più possiamo
questo desiderio soprannaturale. Il trattato di Rodriguez sul valore da darsi alle
cose spirituali è, a parer mio, la parte migliore dei suo preziosissimo libro.



4. È anche importante di non concederci tregua e riposo compiacente nelle
nostre azioni, eccetto che nel servir Dio. Per riposo compiacente intendiamo il sentirsi
a proprio agio, compiacendoci di ciò che facciamo, obliando che è un
puro mezzo, anche quando non erriamo a tal punto da scambiarlo per un fine, contentandoci
di ciò che siamo, non spingendoci avanti, né essendo consci che combattiamo
o che scaliamo un monte. Nulla può scusare la negligenza dei doveri della
posizione in vita dataci da Dio. Quando non si attende dovutamente ai propri doveri
o non si tengono in alta considerazione, tutto diviene delusione. I doveri rispettivi
sono per ciascuno di noi come tanti sacramenti. Essi sono la nostra via principale
e spesso la sola via per divenir santi. Ma mentre li adempiamo con tutta la pacifica
diligenza ispirata dalla presenza di Dio, dobbiamo seriamente pensare che essi sono
mezzi e non fine, subordinati ed inservienti al grande lavoro della nostra anima.
Nessuna quantità di opere esterne, neppure l’instancabile ed universale eroismo
di S. Vincenzo de Paoli, può supplire al diretto d’attenzione alla nostra
anima, a quel difetto d’attenzione che significa riposarci sulla nostra azione esterna.
Dobbiamo dunque guardarci gelosamente da ogni compiacenza nel nostro operare, anche
quando trattasi di opere di cristiana misericordia o beneficenza e d’amore. È
sempre un piacere il far del bene, ma pure deve essere sorvegliato, moderato, infrenato,
o ci cagionerà danno prima che ce ne accorgiamo. Un buon aiuto a quest’oggetto
è il pensiero dell’eternità. Esso comprime l’orgoglio dell’operar esterno,
e spoglia la nostra riuscita d’ogni splendore e d’ogni tinta; e questo è bene,
perchè tale splendore e tale tinta non sono altro che il riflesso di noi stessi
e della nostra attività.



5. Non dobbiamo omettere di notare anche alcune pratiche d’umiltà speciali
a questo periodo della vita devota. Non dobbiamo voler obliare i nostri peccati per
dedicarci interamente ed esclusivamente a considerare l’immensità dell’amor
di Dio. Sarebbe troppo presto; anzi, nel senso che incliniamo ad attribuirgli, il
suo tempo non verrà mai al di qua della tomba. Noi dovremmo sempre essere
compresi d’incantevole gratitudine, perchè, fra tante creature umane, siamo
stati distintamente visitati da Dio, e siamo stati colmati delle sue più scelte
grazie. Mette quasi a repentaglio la nostra fede il pensare che essendo noi ciò
che siamo, Iddio si sia diportato come si diportò verso di noi. Oh beata incredulità!
oh anima felice, che deve combattere contro questa modesta miscredenza! Non dobbiamo
aver ansia per l’altezza che probabilmente raggiungeremo nella nostra vita spirituale.
È questo un soggetto, sul quale non dovremmo mai esercitare il nostro pensiero.
Qualunque sia la grazia che Dio intende di largirci, Egli ce ne diede già
molto più di quanto noi vi abbiamo corrisposto. Viviamo in questo pensiero
e facciamocene un romitorio. Possiamo desiderare quanto ci piace, ma non calcolare
o contemplare. La umiltà deve imprimere uno stampo perfino ai nostri sforzi
verso la virtù. La virtù non deve essere né inquietante né
disordinata. La virtù per se stessa è un mezzo, non un fine, perchè
la virtù non è Dio, neppure l’unione con Dio. Non tenete per strana
questa espressione ammonitiva. Essa era sempre sulle labbra di S. Francesco di Sales.
Noi siamo così perversi, che possiamo convertir i nostri sforzi verso la virtù
in inciampi al nostro amar Dio. Non è cosa da poco l’assiderci in mezzo ai
nostri falli ed alle nostre abiezioni, e sentirci come al nostro luogo. Quando Giobbe
s’assise sul letamaio, offriva in se stesso uno spettacolo piacevole agli occhi di
Dio, perchè raffigurava ed esprimeva i sentimenti e l’umiltà della
creatura al cospetto e sotto la mano del Creatore. Attendete seriamente, ma non avidamente
alla virtù. Non perdete tempo a rifare continuamente i vostri passi per misurare
il terreno da voi calcato. Non siate esigenti con voi stessi; perché ciò
vi condurrebbe in prima alla fretta, quindi al malumore, poi all’oblio della vostra
propria malvagità, ed in fine a dubitare della bontà di Dio. Ma adagio.
Dovrò ripetere questo cento volte, perchè non v’è nella vita
spirituale alcuna difficoltà o pericolo, in cui questo non sia un consiglio
necessario. Finalmente la nostra attuale umiltà esige che in nessun modo desideriamo
che ci accadano cose soprannaturali, quali sarebbero voci mentre preghiamo, visioni
e simili. Una persona che desideri queste cose può ad ogni istante divenir
preda di terribili illusioni; ed ancorché Dio realmente concedesse tali doni,
essi sarebbero accompagnati da grandi pericoli per le nostre anime inesperte e non
intieramente mortificato. Probabilmente li contorceremmo a nostra propria distruzione.
Eppure un tale desio è una tentazione comune in questo critico periodo. Se
santa Teresa credette bene di pregare che Dio volesse guidarla per la via ordinaria
e comune, quanto non deve essere necessaria a noi una tale guida comune! Pure stenterei
a consigliare di pregare per ottenerla, per timore che tale preghiera ci empia il
capo di pericolosi pensieri. Non v’é né debolezza né follia
che possa riuscir di sorpresa al nostro amor proprio.

In questi cinque modi possiamo corrispondere alle grazie già da Dio largiteci,
e coltivar quelle nuove belle promesse di incremento in santità, che Dio ci
permise di mostrare nella nostra anima. Non lascerò questo soggetto del pio
progresso senza presentarvi un estratto che Orlandini tolse dalle carte del gesuita
padre Faber compagno di sant’Ignazio. È comune errore, dice Orlandini, in
coloro che mirano alle perfezione, il far più attenzione ai loro falli quotidiani,
che non a coltivare più oltre la virtù ed il progresso spirituale.
Faber si lagnava spesso di questo, dicendo parergli che la gente avesse più
gusto in studiare l’arte di far sbagli e falli, che non d’acquistare la bellezza
della virtù. Egli chiamò questo una frode nella vita spirituale. Perchè
se è virtù l’evitar il vizio, pure il contemplare sempre e deplorare
i nostri peccati, trattiene la nostra anima dall’elevarsi a cose migliori, e ritarda
la sua santa impetuosità, con cui tenta grandi opere e rapidamente ascende
le elevazioni della virtù, le quali sono per se stesse fatali al vizio, che
noi meno saviamente cerchiamo di scemare col guardare continuamente noi stessi.






Testo tratto
da: P. F. Faber d’O., I progressi dell’anima nella vita spirituale, Torino:
Marietti, 1906 (trad. della III ed. Inglese, 1859), pp. 22-32.